4.2 Senza spazio, l'utopia muore  

06.02.2023

Alla logica dell'estensione si sostituisce oggi quella della dislocazione, lasciando il soggetto privo di riferimenti orientativi e abbandonato all'emotività del gusto. Per tornare ad abitare il presente serve individuare nuove modalità di configurazione del senso 

(se non letto prima, si rimanda al post "4.1 Abitare il non-luogo, l'estetizzazione della vita")

Stabilire il proprio segreto, in quanto atto e gesto di auto-fondazione identitaria, non è per nulla semplice.

Ogni intimità è il prodotto (condizionato) dell'estetizzazione del soggetto, ancorché il frutto di sue scelte selettive e deliberate. Quando tutto e tutti vogliono significare, non possiamo far altro che rilevare un progressivo venir meno della differenza di senso, di ciò che consente di ritagliare per sé quel contorno differenziale - la forma - che può fungere da identità distintiva: questo perché il nostro mondo si configura sempre come mondo dove la dissacrazione è luogo comune. Non dobbiamo dimenticare che qualsiasi artefatto estetizzato porta con sé, o su di sé, tracce evidenti di sistemi di significato e di valore, frammenti cognitivi o culturali, "...componenti sparse e diffuse di possibili correnti o tendenze collettive di gusto. [...] più che come sintomi - segni eteronomi, da interpretare al di fuori della loro presenza, alla luce di sistemi di significato e di idee astratte - andrebbero letti come componenti parziali di potenziali aggregati. Le tendenza, appunto, del gusto" (ibidem, p. 68).

Come sosteneva Immanuel Kant, è il gusto ("la facoltà di giudicare il bello") che permette di giudicare la forma, l'apparenza visibile, "senza alcuna mira a un concetto che se ne potrebbe ricavare" (I. Kant, Critica del Giudizio, Laterza, Roma-Bari 1979, p.31). Affrancata dagli obblighi della verità, ma al contempo emarginata dal sapere scientifico, la cultura odierna risulta solo apparentemente estetica. Se la conoscenza può infatti essere definita, nota Giorgio Agamben, come quel "processo intellettuale" che permette di far combaciare senza residui gli aspetti del significante - la trama del visibile, dei fenomeni, dei segni e delle apparenze - con gli aspetti logici, spirituali del significato, allora la presenza incongrua del gusto mostra che questa equazione non potrà mai essere perfetta: "c'è sempre una inadeguazione...che si traduce nell'esistenza di una sovrabbondanza del significante in rapporto al significato" (G. Agamben, Gusto, in Enciclopedia, Einuadi, Torino 1979, vol. 6, p. 1032). Le tendenze estetiche appaiono aggregazioni del gusto schierate in ordine sparso, senza gerarchia, in grado di evadere la domanda sul senso facendo appello al visibile, il quale - nonostante tutto - dà invece molto da pensare. La risposta diviene così una sorta di arbitrio massificato: non sappiamo che cosa rappresenti, che cosa significhi ciò che vediamo: ci piace, o non ci piace, e tanto basta.

"La richiesta della regola, della legge che Kant trovava innescata nella differenza fra quanto vedo e quanto so, sembra cedere di fronte all'elenco insensato, al catalogo della novità"

(Carmagnola, op.cit., p.71)

Oggi pretendiamo di fare a meno delle sicurezze intellettuali del "giudizio determinante", della tentazione puramente descrittiva dell'elenco, appellandoci al contrario a quel "procedimento a tentoni" che François Lyotard chiama "concatenazione di eterogenei".

Occorre allora tornare alla domanda precedentemente lasciata in sospeso: perché, e in che modo, si costruisce un segreto attorno a qualcosa che, già di per sé, non è chiaro, è ambiguo, pur nella sua più immediata manifestazione? Quale funzione gioca il "fuori"? La tartaruga senegalese incontrata a inizio percorso torna improvvisamente in nostro aiuto.

Come ha sottolineato Louis Marin in Utopie jeux d'espaces (Minuit, Paris, 1973), nel racconto epocale di Thomas More è il testo che delimita lo spazio immaginario, che serve da pre-testo per l'invenzione sociale, che permette al viaggiatore di circolare in un non-luogo, o più esattamente in un luogo senza nome, un luogo dove il nome partecipa alla propria negazione, alla propria rappresentazione fuori carta nella carta del reale. L'utopia, nell'evento del suo significato, rappresenta allora il "fuori" del pensiero. La sua costante incompiutezza offre inoltre una garanzia antitotalitaria. Un'utopia realizzata, paradossalmente, non fa che staccarsi dalla Storia. Il suo destino finisce per sposare le forme della ripetizione della perfezione, dell'ordine armonico. Di riflesso viene meno ogni nota falsa. Ci ritroviamo davanti a un surplace immobilizzato in una marmorea eternità: il tempo di questa utopia, immutabile perché troppo completa, somiglia alla superficie di un lago. Liscia e certamente riposante, ma alla lunga noiosa e soprattutto anormale: la vita, al contrario, è fatta di irregolarità.

Considerazioni simili insinuano il dubbio che l'utopia, anziché esser bloccata nella sua genesi dall'eccesso di condizionamenti esercitati sul pensiero autonomo, sia in realtà in atto nella nostra società. Nell'opporsi al synoptismo, la disgiunzione del tempo attuata dal soggetto comporta infatti una continua trasgressione del limite, assegnandolo a un luogo in divenire in quanto dividuo, a uno spazio non racchiudibile secondo alcun confine prestabilito. L'utopia, nel senso primo del termine, non può che darsi nella costante negazione, nella sua impossibilità, proprio perché "avendo luogo" finisce per chiudersi in se stessa, per dar forma a un mondo compiuto e statico. L'utopia che si avvicina meglio alla comprensione dello stato attuale del soggetto potrebbe essere quella descritta da Charles Fourier. Il teorico francese lascia infatti la questione del potere e del controllo senza risposta: o meglio, non risponde perché sposta il problema cambiandone natura. Nell'organizzazione della "falange", presentata nel Nuovo mondo industriale e societario come struttura abitativa in cui si svolge la vita dei membri dell'unità sociale di base, sono solo le passioni a tenere le redini dell'ordine. "Che l'individuo cammini nel bene abbandonandosi ciecamente alle sue passioni": stop al pensiero, stop alle critiche. Là dove il potere-controllo annulla le gerarchie del potere-disciplinare, il soggetto appare semplicemente incalzato dall'inconsapevole ricerca dei propri fantasmi. Abbandonarsi alle passioni significa lasciar emergere quella dimensione dividualizzante e dinamica che, scaturita dall'opposizione alla staticità gerarchica del potere, si rivela sempre più un'arma a doppio taglio. Pari passo la scrittura dividuale dei corpi, che potremmo chiamare "organica", si manifesta con l'apertura di spazi altri.

Proprio Foucault ha riconosciuto che "viviamo in un momento in cui il mondo si sperimenta, credo, più che come un grande percorso che si sviluppa nel tempo, come un reticolo che incrocia dei punti e la sua matassa" (M. Foucault, Spazi altri, Mimesis Eterotopia, Milano 2001, p.19). La dividualità non disegna più lo spazio dell'estensione - uno spazio infinito e infinitamente aperto, rispetto al quale il "luogo" di una cosa è il rassicurante punto di un movimento, mentre lo "stato di quiete" della cosa il suo movimento indefinitivamente rallentato (questo era lo spazio di localizzazione come veniva inteso ancora nel Medioevo) - ma fa riferimento al concetto di dislocazione.

"La dislocazione - afferma ancora Foucault (ibidem, p.21) - è definita dalle relazioni di prossimità tra punti o elementi: formalmente, queste possono essere descritte come serie". Scompare la visione uniforme dello spazio, chiusa in limiti definiti; scompaiono i limiti stessi delle cose. Lo spazio della dislocazione non è, ma "si fa" per con-figurazione, si produce mediante l'intersezione di linee vettoriali che individuano punti di concretizzazione. L'ordine è dunque costruito in virtù dell'aggregazione seriale, non ha più nulla dell'oggettività naturale o dell'assolutezza aprioristica del pensiero classico. È un artefatto del divenire, un conglomerato del movimento.

"Lo spazio nel quale viviamo, dal quale siamo chiamati fuori da noi stessi, nel quale si svolge concretamente l'erosione della nostra vita, del nostro tempo e della nostra storia, questo spazio che ci rode e ci corrode, è anch'esso uno spazio eterogeneo" (ibidem, p. 22).

Viviamo all'interno di un insieme di relazioni che definiscono delle collocazioni irriducibili le une alle altre e che non sono assolutamente sovrapponibili. Ma questo spazio è davvero vivibile? È ancora a misura d'uomo, o presuppone forse un differente tipo di soggetto e di corpo? (continua 4.3)