1.1 Ambiguità del controllo
Per fronteggiare le sfide della biopolitica occorre far chiarezza sul rapporto fra potere e controllo. Senza un adeguato riconoscimento delle procedure selettive in atto nel linguaggio, ancorché nei corpi, corriamo il rischio di essere vittime di un sistema cieco a se stesso
"Chiedo cinque minuti per compiere un mio rito", rispose la vittima designata a un destino più che certo, e si allontanò. La tartaruga incominciò a scavare di qua e di là nel terreno, si rotolò sul suolo con dei balzi frenetici, finché esaurite le forze, tornò davanti al suo sfidante e si dichiarò pronta. Il leopardo, che sembrò turbato, chiese all'avversaria: "Che hai fatto?...invece di risparmiare le tue forze, cosa ti sei affannata a fare?".
"Non c'è tempo per spiegartelo caro leopardo, passiamo pure all'atto finale".
Il leopardo alzò una zampa e la tartaruga si spense senza soffrire.Mbacke Gadji, Numbelan, Edizioni dell'Arco, Milano 1999, p. 11.
Al di là delle frasi e delle proposizioni, l'enunciato.
Mentre Michel Foucault esplorava sin dai primi anni '60 del Novecento un nuovo metodo d'indagine, sfidando malignerie e pregiudizi del mondo accademico in Europa, fra le foreste del Senegal un'audace tartaruga ne sperimentava l'efficacia con risultati ambivalenti. La fine dell'eroica testuggine - ricordata dalla favola di Mbacke Gadji - rappresenta ancor oggi un esempio chiaro, e al tempo stesso sottilmente intricato, delle dinamiche di potere attraverso cui sono istituiti i ruoli dei soggetti nella società: perché la savana, o giungla che sia, rimane pur sempre il modello paradigmatico dell'habitat in cui l'uomo moderno ha voluto scorgere la propria culla e dal quale, confusamente, continua a voler prendere le distanze.
Immagine dei rapporti di forza che scandiscono le gerarchie naturali, il duello della favola senegalese mostra però più di quanto sarebbe sufficiente per interpretarla secondo gli ormai consolidati schemi del "potere". Troppe volte, attraverso questa lente, il dibattito pubblico ha affrontato e giustificato i temi più disparati, ricorrendo ad essa come a un deus ex machina per risolvere le contraddizioni più ostiche con un facile colpo di spugna.
Una mancanza favorita certo dal carattere aperto dei testi foucaultiani, imprescindibile base di riferimento per gli studi sul tema: proprio per l'assenza di una rigorosa definizione di "potere", interviste a stralci, opere talvolta non concluse e inevitabili svolte di percorso, si sono prestate a giustificare sviluppi molto lontani dalle posizioni del filosofo francese.
Se è pur vero che non era nelle intenzioni dello stesso Foucault dar adito a una filosofia del potere metodologicamente "chiara e certa", in quanto non confacente al suo spirito d'indagine, senza dubbio il "potere" è stato trasformato - e tuttora viene impiegato - come fondamento ultimo di numerose teorie politiche, storiche o persino biologiche: assolutizzandone la referenza, da esso sono stati fatti discendere ulteriori concetti chiave che, in passato, occupavano una posizione assai più problematica negli scritti di Foucault. E' il caso del controllo, che affiora in tutta la sua fresca ed enigmatica problematicità proprio fra le righe di Gadji.
Nella continuità narrativa, nella richiesta di chiarezza formulata dal leopardo, si addensano una serie di Leitmotiv che fanno del predatore l'esponente tipico della logica occidentale: in lui tralucono il senso della tradizione, lo spirito dei tempi, l'influenza dell'autorità (da cui discendono i fenomeni della somiglianza e della ripetizione), il riconoscimento di ciò che è dato e lo sviluppo di quanto ha da essere. Il leopardo vive appunto nel segno della continuità. E' ormai abituato a stabilire comunità di senso sotto la rassicurante specie dell'identitas, in virtù della quale la verità del discorso è correlata al controllo dei suoi stessi elementi, all'ordine con cui vengono disposti: per comunicare non basta investire un oggetto di significatività; occorre piuttosto trovare precise regole d'incastro secondo una "catena transitiva" che consenta di legare gradualmente gli estremi della significazione. Le antitesi, solo apparenti, vengono cioè fluidificate sino al raggiungimento della sintesi, sotto la verifica dell'identico.
Pronunciare parole a vanvera, rinunciare per un attimo all'esigenza di voler controllare ciò che si sta dicendo, o rifiutare di dare una spiegazione (come fa appunto la tartaruga) a quanto sta accadendo, significa invece accettare di avere a che fare con una folla di avvenimenti sparsi, incoerenti, senza senso.
"Ciò che non si vuole - ha osservato Carlo Montaleone in "Homo loquens" (C. Montaleone, "Homo loquens", Raffaello Cortina editore, Milano 1998, p. 18) - ma senza poterlo ammettere apertamente, è veder rinnovata nelle coordinate della conoscenza quell'analisi del come e del quando certe possibilità di comunicazione, definite da strutture linguistico-simboliche distinguibili, diventano nell'interpretazione storica testimonianza di conflitti e di lotte, e quindi dimostrazione vivente di un filo spezzato, davanti al quale le teleologie trascendentali, madri putative di un pensiero antropologico avvezzo a interrogare l'essere dell'Uomo, potrebbero improvvisamente dover aggiungere allo sconcerto di trovare l'Altro la sorpresa di vederlo annidato dove meno l'immaginavano".
In fondo, non serve neppure "scegliere" di rinunciare: ci rendiamo conto che procedure di controllo sono già in atto, a livello inconscio, nella struttura stessa della nostra grammatica, essendo ciò che conferisce senso al nostro pensare e parlare in modo "logico".
"Mentre pare che non si possa scegliere un archivio culturale più di quanto sia dato scegliere i genitori, nulla come la raison d'etre degli archivi culturali è lì a dimostrare che in realtà scegliamo e decidiamo almeno ogni volta che qualcuno tenta di riagganciare la durata flebile degli eventi a qualche identificazione meno instabile. Anzi, che questo tipo di utenti dell'Archivio Sommo parli delle nostre pratiche discorsive assegnando all'Inintenzionalità e alla Decisione il ruolo di ballerine gemelle, che non ballano mai da sole benché l'una volteggi incognita alle spalle dell'altra, è assai più di un fatto, direi che è una teoria. Ma è qui l'intralcio che dovrebbe dirci qualcosa" (ibidem, p. 22).
Foucault non ha mai tematizzato rigorosamente la nozione di "controllo", che al contrario appare più vicina all'ambito di ricerche portate avanti da filosofi come Moritz Schlick, Alfred Tarsky, Karl Popper e, in genere, agli esponenti dell'epistemologia contemporanea. Ciononostante, preservato dai rischi della formalizzazione e dai paradossi del verificazionismo, egli è riuscito a sviluppare il tema partendo da angolature inusuali, troppo spesso ridotte alla sola e onnicomprensiva categoria del "potere". La scelta programmatica di scavalcare frasi e proposizioni, a favore degli enunciati, mostra già di per sé l'originalità del suo approccio: perché, come emerge ne L'archeologia del sapere, il controllo è qualcosa di già manifesto e in atto nel momento in cui facciamo ricorso a categorie riflessive, a principi di classificazione, a regole normative in virtù delle quali ogni nostro discorso, dal semplice scambio di battute che si verifica nella comunicazione quotidiana, alle severe dissertazioni scientifiche, è reso possibile in quanto strumento di significazione e significatività.
Volgersi al rinvenimento degli enunciati nell'episteme occidentale comporta innanzitutto una ricerca di tipo storico-archivistico, che inaugura una "logica atonale" (G. Deleuze, Foucault, Feltrinelli, Milano 1987, p. 13) dagli effetti inquietanti, in quanto priva di esempi. Foucault non si chiede se una proposizione esprima sempre il suo significato, perdendosi nelle distinzioni formali fra definizioni comuni ed ostensive; non crea metalinguaggi in cui includere la definizione di verità; non fa appello alle virtù della falsificabilità. Una frase, infatti, ne nega sempre altre, ne impedisce altre, contraddice o rimuove altre frasi, "di modo che ogni frase è ancora gravida di tutto ciò che essa non dice, di un contenuto virtuale o latente che ne moltiplica il senso, e che si offre all'interpretazione dando luogo ad un "discorso nascosto", vera e propria ricchezza di diritto" (ibidem, p. 14). L'uso di una frase o di una proposizione partecipa cioè di una proprietà che consente di orientare il discorso veritiero secondo canali predefiniti, seguendo un percorso obbligato che discerne fra possibilità concesse e interdette. Ma in virtù di quale diritto viene attribuito a un "dictum" lo statuto di espressione significativa, o di proposizione sensata?
Foucault afferma che un enunciato può essere costituito anche dalle semplici lettere A, Z, E, R, T enumerate in una manuale di dattilografia, in quanto riproducenti l'ordine alfabetico adottato dalle macchine da scrivere francesi (M. Foucault, Archeologia del Sapere, Bur, Milano 1994, p. 101). Molteplicità priva di una costruzione linguistica regolare, ma comunque significativa.
Questo primo esempio ci consente di porre una distinzione fra "regolarità" (intesa comunemente come scansione ritmica dei significati, volta a svilupparne il senso di familiarità nella ripetizione) e "ordine" (insieme di regole immanenti a una pratica), elementi utili nella definizione foucaultiana di controllo: è l'ordine che indirizza la lettura del dato e ne fonda la regolarità (questa volta intesa come "rete di possibili posizioni distinte di soggettività", AS, p. 74); è l'ordine che apre e definisce lo "spazio di rarità" degli enunciati, in virtù del quale sono resi possibili movimenti, trasporti e tagli dello scibile. La stessa "diagonale" di cui parla Gilles Deleuze, sinonimo del "controllo" foucaultiano (ciò che "permette di confrontare direttamente uno stesso insieme a livelli differenti, ma anche di scegliere direttamente a uno stesso livello certi insiemi senza tener contro degli altri che tuttavia ne fanno parte", Foucault, op. cit., p. 15) non è che il frutto di un'intersecazione di spazi ordinati. Il controllo è essenzialmente un problema di ordine topologico, che riduce ogni forma della temporalità a quella dello spazio (secondo Deleuze la regolarità non è infatti una "media", ma una "curva" in cui cade ogni possibile distinzione legata alla distanza storica che separa la riscoperta di uno stesso enunciato, così come alla sua origine e alla sua scomparsa).
Si domandava significativamente Foucault ne "Le parole e le cose" (Rizzoli, Milano 1967, p. 65):
"si vuole tracciare una divisione? Ogni limite è forse solo un taglio arbitrario entro un insieme continuamente mobile...come mai il pensiero ha un luogo nello spazio del mondo, come mai esso vi trova una sorta di origine e non cessa, in entrambi i casi, di cominciare ogni volta da capo?".
La questione del controllo, e di riflesso quella della trasgressione dal controllo, appare strettamente connessa alla ricerca del luogo che rende possibile l'esercizio di un potere sull'aleatorio: conoscere dove si situi questo luogo, nel periodo storico in cui si vive, significa possedere le chiavi di accesso alla formazione della soggettività: coatta, nel caso in cui il luogo del controllo sia piegato alle finalità politiche del potere, liberamente condizionata dalla dimensione evenemenziale dell'esistenza, nel caso in cui si scelga di vivere al suo interno senza pretendere di assolutizzare la verità del proprio tempo. In ogni caso, nella ricerca e nell'insediamento di questo "luogo privilegiato" dello spazio, ne va della coscienza dell'uomo, della sua dignità, del suo senso di humanitas.
Per quanto mai esplicitamente argomentato, se non secondo chiavi di lettura già ideologicamente orientate - come appunto quella legata al tema del potere - il controllo risulta un "fatto" del discorso da analizzare accanto e prima degli altri, il nodo di un reticolo, un'unità taciuta e occulta, relativa oltre che variabile nel tempo e nello spazio.
Il controllo di cui parla Foucault è distinto e genealogicamente più originario rispetto a quello descritto da Deleuze sulla scorta delle sue opere. Per quest'ultimo si tratta di una "forma" del potere non più coercitiva e operante attraverso il processo dell'individualizzazione (tipico appunto alle forme disciplinari di potere analizzate da Foucault), bensì funzionante per "dividualizzazione" mediante la frammentazione delle identità, dunque secondo un processo non finalizzato alla loro formazione (G. Deleuze, Postscript on Societies of Control, in "October", anno 59, 1992, n. 4.). Pur con le dovute ed essenziali distinzioni, la sfera di pensiero in cui la nozione di "controllo" viene a definirsi è qui legata ancora alla nozione classica di "potere" scandagliata nell'opera foucaultiana.
La società del controllo è continuamente sottoposta alla prova del confronto, ove il diverso, l'altro, l'estraneo, vengono accettati (e dunque ridotti) soltanto dopo aver trovato, attraverso la misura, o più radicalmente attraverso l'ordine, l'identità e la serie di differenze nell'unità comune. Il confronto può ovviare all'aleatorio, ottenendo una certezza assoluta: gli oggetti della conoscenza non vengono più avvicinati fra loro, secondo oscuri rapporti di parentela o di natura, ma vengono discerniti: dapprima si stabiliscono le identità, successivamente la necessità del passaggio a tutti i gradi progressivamente più lontani.
"Il discernimento impone al confronto la ricerca prima e fondamentale della differenza: darsi attraverso l'intuizione una rappresentazione distinta delle cose, e cogliere chiaramente il passaggio necessario da un elemento della serie a quello che ad esso immediatamente segue...il linguaggio si ritira di tra gli esseri per entrare nella sua età di trasparenza e di neutralità"
(M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p. 71).
La società del controllo affonda allora le sue radici nel sapere classico dell'Occidente, intrattenendo un rapporto speciale con la mathesis, intesa come scienza universale della misura e dell'ordine. Resta tuttavia un fondamentale squilibrio in virtù del quale le relazioni fra gli esseri vengono sì pensate nella forma dell'ordine e della misura, ma a patto che i problemi della misura possano essere sempre ricondotti a quelli dell'ordine. "Di modo che il rapporto di ogni conoscenza con la mathesis si dà come la possibilità di stabilire fra le cose, anche se non misurabili, una successione ordinata" (ibidem, p. 72). Di qui, Foucault fa poi discendere l'apparizione della grammatica generale, matrice prima della storia naturale, dall'analisi delle ricchezze, nonché delle successive scienze dell'ordine.
Queste precauzioni dovrebbero essere sufficienti per non equivocare alcune considerazioni sull'ordine, espresse dal filosofo di Poitiers ne "L'ordine del discorso":
"suppongo che in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i pericoli, di padroneggiare l'evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità" (M. Foucault, L'ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972, p. 9).
E' chiaro che non possono essere né i soggetti formati dal discorso a controllarne lo sviluppo, né il corso evenemenziale della storia a orientarne le stratificazioni: il discorso fondato sugli enunciati è autoreferenziale, "non è semplicemente ciò che manifesta o nasconde il desiderio; il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte di sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi" (ibidem, p. 10). O ancora:
"Un giorno è venuto in cui la verità si è spostata dall'atto ritualizzato, efficace e giusto, d'enunciazione, verso l'enunciato stesso, verso il suo senso, la sua forma, il suo oggetto, il rapporto con la sua referenza"
(ibidem, p. 14).
Di fatto, una simile unità non solo non è data immediatamente, non la si può dedurre dall'osservazione del campo sociale come se fosse un fenomeno a esso peculiare, ma è intrinseca alla genesi degli enunciati. La si può definire e costruire al solo patto di ricorrere a un'operazione interpretativa. Emerge laddove il discorso manifesto viene considerato come "la presenza repressiva di ciò che esso non dice: e questo non detto sarebbe un vuoto che mina dall'interno tutto quello che si dice" (M. Foucault, L'Archeologia del sapere, Bur, Milano 1994, p. 35). "Presenza repressiva" è un'espressione ancor oggi carica di ambiguità, che lascia intravedere uno scenario sdoppiato ove la genesi del senso si compie al di là della parola, ridotta in tal modo a una mera espressione di uno stato di fatto.
Ora, è stato proprio Deleuze a rimarcare che non dobbiamo mai cedere alla tentazione di stabilire delle semplici connessioni causali di fronte alle partizioni individuate da Foucault: non è corretto porre tra le "formazioni non discorsive di istituzioni" (avvenimenti politici, pratiche e processi economici...) e le "formazioni discorsive di enunciati", una sorta di parallelismo verticale come tra due espressioni che si simbolizzassero reciprocamente (relazioni primarie d'espressione), o una causalità orizzontale in base alla quale gli avvenimenti e le istituzioni determinerebbero gli uomini in quanto autori supposti di enunciati (relazioni secondarie di riflessione).
"La diagonale impone una terza via: relazioni discorsive con gli ambiti non discorsivi, che a loro volta non sono né interne né esterne al gruppo di enunciati, ma costruiscono il limite [...], l'orizzonte determinato senza il quale non potrebbero apparire gli oggetti degli enunciati, né potrebbe essere loro assegnato un posto nell'enunciato stesso"
(G. Deleuze, Foucault, Feltrinelli, Milano 1988, p. 21).
Scartata l'ipotesi di ricondurre i fenomeni di controllo a forme storicizzate e variabili del sociale, non resta che assumerli nella loro valenza più propriamente filosofica.
Nel vuoto del discorso dobbiamo fra l'altro riconoscere l'operato di ciò che Foucault indicherà come trasgressione, correlato antitetico del controllo: perché è dal continuo scontro e raffronto di queste due forze (forza centripeta della logica discorsiva opposta alla forza centrifuga del non-discorsivo) che Foucault è infine riuscito a individuare le peculiarità dei concetti fondamentali che animano la sua riflessione.
Ancora una volta, vale l'appello per cui "bisogna rinunciare a tutti i temi che hanno la funzione di garantire l'infinita continuità del discorso ed il suo segreto essere presente a se stesso, nel sempre rinnovato meccanismo di un'assenza" (ibidem). Occorre cioè tenersi pronti ad accogliere ogni momento del discorso nella sua irruzione di avvenimento, senza rimandare a una lontana e posticcia presenza dell'origine, bensì affrontarlo nel meccanismo della sua istanza. (continua 1.2)