4.1 Abitare il non-luogo, l'estetizzazione della vita

05.02.2023

La scomparsa del pensiero utopico e l'impossibilità di realizzare nuove utopie potrebbero dipendere dal fatto di vivere già un'utopia, per quanto non ancora riconosciuta. Prendere coscienza di questa condizione permetterebbe di riappropriarsi dei modi di essere, anziché viverli come capricci o distopie del controllo

(se non letto prima, si rimanda al post "4.0 L'ospitalità, soglia del non-luogo")

Se pensare nuove utopie è sempre più difficile, tradurle nella realtà è ormai impossibile. Con la disgregazione del sé definito dalla modernità, l'uomo contemporaneo non ne ha più bisogno. Le utopie sono infatti esigenza di un sé formato e compiuto, che deve trasgredire il mondo in cui si trova perché troppo stretto per i propri bisogni. Questa condizione spiega anche il motivo per cui l'utopia, oggi, non possa aver-luogo: nella società del consumo, a differenza di quella basata sull'accumulo di capitale, manca la spinta all'impossibile che permette di vedere il reale sotto forma di possibile: tutto ciò che fa attrito scompare ancor prima di poter generare la frustrazione del mancante. Con un gioco di parole: fare l'impossibile, per dar adito al possibile, non è più possibile.

Eppure, un dubbio sorge ancora: se si stesse vivendo già in una sorta di utopia, capace di conservare il proprio valore trasgressivo semplicemente perché non avvertita in quanto tale e, dunque, non soggetta a cadute iperrealistiche? Se utopia è il non-luogo, cioè il "fuori" antepredicativo, nonché la negazione del confine, non dobbiamo forse dedurre che le odierne derogazioni del sé dipendano da quest'impossibilità costitutiva di mettere radici?

Dal momento che tutto è transeunte e poiché non si dà più distinzione fra spazio pubblico e privato, ma solo loro commistione, dobbiamo forse riconoscere che non esiste più un luogo della verità, dunque di identità del sé. Al contrario, restano solo una straordinaria attenzione verso la qualità delle apparenze degli artefatti, una sollecitazione quasi morbosa della loro sensorialità. È proprio ciò che Jean Baudrillard ha definito "estetizzazione del mondo della vita" (Illusione, disillusione, estetiche, Pagine d'arte, Milano, 2000):

"oggi tutte le cose vogliono manifestarsi. Gli oggetti tecnici, industriali, mediali, gli artefatti di ogni specie vogliono significare, essere visti...".

Nell'elenco di questi artefatti nulla vieta di includere il sé dell'uomo moderno, essendo appunto il più sofisticato degli artefatti: una licenza concessaci dall'allentamento dei vincoli e delle rigidità delle categorie disciplinari, così come delle distinzioni forti della modernità, che cedono oggi il posto alla messa in parentesi, alla sospensione e alla citazione.

"La società post-moderna realizza l'ideale avanguardistico e utopico di un'estetizzazione della vita quotidiana; non si può intenderla solo come società dello spettacolo, apparenza manipolata solo dal potere, ma occorre vederla anche come una realtà più fluida dove i nuovi caratteri dell'esperienza sono l'oscillazione, lo spaesamento, il gioco, e dove l'erosione del rigido principio di realtà costituisce un potenziale emancipativo".

Fulvio Carmagnola ("Niente è più soltanto una cosa, IF Mimesis, Milano 2001, p.66)

Ciò di cui possiamo fare esperienza è un flusso, un "aperto" in continua evoluzione, nel quale ogni io "è" ed "esiste" solamente in funzione di una posizione occasionale; in questo transitare di ogni realtà nel tutto, l'unica possibilità per affermare il proprio sé sta nel negare quanto è dato. L'impossibilità di trattenere questo continuo avvicendarsi di identità, di solidificarle in un io compiuto, rende effimero tutto ciò che temporalmente prende forma sul limite. Il nostro essere Altro riesce a configurarsi al solo patto di negare il Medesimo. Di trasgredirlo. Ciò significa che altro non siamo, se non un Medesimo che cerca di vedersi diversamente da sé, negando sé.

La condizione di uguaglianza prodotta dal livellamento del controllo, di fatto, ci chiude nel cerchio invalicabile del Medesimo. O, a ben guardare, ci dischiude a esso. Ci apre in realtà all'autentica dimensione dell'essere, nella quale la partizione fra il reale e l'ideale si rivela illusoria, sottraendoci al giogo delle identificazioni date, delle catalogazioni predefinite, assegnandoci al contrario un ruolo attivo e produttivo: un luogo di perenne divenire rispetto al quale possiamo essere ciò che vogliamo, perché siamo ciò che appariamo; un luogo, ancora, dove la possibilità di dire a tutti, sempre e comunque, chi siamo, pur non sapendolo, ci libera dalla dimensione autoritaria e gerarchica del potere (non ci sono più né re né regine, né vinti né vincitori), dalla tirannia del segreto inconoscibile, consegnandoci al punto zero di ogni possibile scelta. Dove ogni segreto non è dato, ma costruito.

Il problema, semmai, non riguarda la possibilità di trasformarci, bensì il modo in cui possiamo farlo senza mettere a repentaglio la vita stessa. Perché la vita è sì libertà, ma non capriccio. (continua 4.2)