5.2 La verità del linguaggio

19.02.2023

Grazie allo studio dei processi di significazione è possibile comprendere anche le molteplici modalità del non senso,  maschere di autodifesa che di volta in volta producono una nuova genesi di senso attraverso lo "spazio tropologico": spazio che fa del mondo il prodotto configurato della parola

(se non letto prima, si rimanda al post "5.1 Sperimentare il non senso")

Pur avendo descritto macchine straordinarie ed eventi prodigiosi, Raymond Roussel resta colui che meglio ha saputo mostrare in che modo il nostro mondo sia il prodotto configurato della parola.

"La scrittura si ordina a partire da un segreto, - osserva Massimiliano Guareschi nell'introduzione all'epocale saggio che Foucault dedica allo scrittore francese (in M. Foucault, Raymond Roussel, op. cit., p. 25) - segreto che, una volta rivelato, non rimanda a verità nascoste o ad arcane profondità, ma al casuale strutturarsi di un reticolo di vincoli fonetici". Sottolineiamo "casuale" e "vincoli" per evidenziare l'origine aleatoria di quel che, al contrario, siamo soliti considerare una necessità evidente in base alla quale prende forma il concatenamento fra parole: dietro ogni ordine non esiste mai alcun fondamento assoluto, alcun termine ultimo che giustifichi il senso e lo statuto ontologico dell'evidenza.

La modalità di lettura che più si avvicina a questa condizione interpretativa, non a caso, è quella del gioco, dove le regole risultano fini a se stesse, dove non sussiste alcun legame con quanto accaduto in passato o quanto si verificherà nel futuro, e dove il piacere dell'oblio sta nella possibilità di ricominciare sempre dallo stesso punto. È Guareschi stesso a confermare questa tesi, poco più avanti:

"Al di là dello scorrere delle parole c'è solo il caso, un incontro con altre parole, non il rinvio a un'esperienza o a una realtà originaria"

(ibidem, p. 25)

Non è allora attorno al senso dell'uomo o dell'esistenza che va sollevata la domanda della filosofia, ma in merito all'origine e agli sviluppi di quei percorsi che solo il "procedimento" del linguaggio disegna. Senza questa consapevolezza, rischiamo immancabilmente di spendere chiacchiere interminabili, non arrivando mai a capire che cosa determini quel "permutare" rilevato attraverso lo spazio e il tempo. Cogliere questa "verità" è senza dubbio una delle imprese più ardue del senso comune. L'essenza del linguaggio, infatti, sta nella sua costante "dissumulazione" (M. Foucault, Il pensiero del di fuori, op. cit. p. 132) e nel rappresentare realtà che esistono solo nel detto e nello scritto, come mostra esemplarmente il "Don Chisciotte" di Cervantes, "il libro dove la finzione dei libri si prende come gioco".

Svelate le implicazioni dell'autoreferenzialità, il problema di fondo che investe il linguaggio resta infine l'impossibilità di decidere: esso espone non solamente al rischio di ingannarsi, ma anche a quello di essere ingannati. In particolare, di essere ingannati non da un segreto - visto che nella società del controllo nessun segreto è più realmente tale - bensì dal sospetto che esista qualcosa di segreto.

Da una parte questo spiega la scelta di certuni di non voler essere compresi, inducendo a esibire identità posticce per meglio mascherare se stessi. Dall'altra il non voler essere compresi è anche il modo per assicurare a se stessi la possibilità di stabilire un rapporto e una comunicazione con l'altro, "rapporto e comunicazione - osserva Furio Semerari (Il gioco dei limiti, Edizioni Dedalo, Bari 1993, p. 124) - che non sarebbe possibile stabilire, se si fosse dall'altro conosciuti per quel che effettivamente si è", o meglio, per quel che si pensa di essere. In quest'ultimo senso, l'essere trasgressivi è dunque un modo per attirare su di sé l'attenzione del pubblico, facendo breccia nel muro del segreto. Esistono poi casi in cui non vogliamo essere compresi per evitare semplicemente di stabilire un rapporto o una comunicazione con l'altro, in modo tale che non occorra rinunciare alla singolarità o all'eccezionalità della nostra esperienza, o del nostro essere (pur non potendo attribuirgli ancora un'identità definita): sarebbe questo, a ben vedere, il senso più sottile del "mascherarsi", abito che punta ad accentuare la propria eccezionalità (indeterminata) rispetto a una realtà esterna che, pur apparendo nostra "pari", viene presa a riferimento per promuovere le differenziazioni del "sé" nel "noi". Qui un segreto viene opposto a un altro (supposto) segreto, con l'obiettivo di disinnescare eventuali rischi d'inganno su di sé e sugli altri. Esistono infine casi in cui non vogliamo essere compresi perché puntiamo a preservare l'altro da noi stessi, dalle verità profonde che abbiamo appreso e la cui conoscenza si rivelerebbe dannosa per il neofita: qui sembra invece trovare giustificazione la "reticenza" di certe correnti culturali che amano farsi "esoteriche", onde selezionare possibili adepti nella massa e avvicinare solo chi sia davvero in grado di sostenere la vista dell'abisso. In definitiva, il segreto del linguaggio viene di volta in volta costruito in funzione del disvelamento di una verità.

"Non tanto nel suo senso, non nella sua materia verbale, ma nel suo gioco, una tale parola è trasgressiva"

(M. Foucault, La follia, l'opera assente, in SL, op. cit., p. 105)

Come ora sappiamo, il controllo punta ad annientare il segreto - di qualunque natura esso sia - nel tentativo di stabilire una verità che possa identificare controllati e controllanti (mediante una serie di categorie predefinite e reciprocamente trasparenti). Ma è inevitabile imbattersi in un paradosso. Riconosciuto il linguaggio come un sistema di vie invisibili, di deviazioni e di impercettibili divieti con finalità strutturanti, non possiamo fare a meno di constatare come esso operi al contempo sia per annientare ogni segreto, sia per favorire uno sdoppiamento e una trasmutazione delle forme più evidenti del segreto stesso: ogni parola appare animata e distrutta, riempita e svuotata della possibilità che ce ne sia una seconda. Questa o quella, né l'una né l'altra ma una terza, o niente del tutto. In un linguaggio che non conosce più referenti, l'idea stessa di controllo finisce per perdere di significato: chi controlla chi? In quale misura è possibile distingue la finzione dalla realtà?

Lungi dal raggiungere una trasparenza assoluta, la società del controllo rafforza e accelera la perdita d'identità del soggetto, stimolando però il suo essere metamorfico attraverso la simulazione e la dissimulazione di quanto siamo costretti a esibire. L'essere costantemente esposti a un "occhio" o a un "orecchio" pubblico comporta infatti una continua rimessa in discussione del proprio sé, logorando gradualmente l'antitesi fra essere e apparire.

Possiamo allora comprendere meglio perché una serie di parole identiche, ad esempio, dicano in realtà due cose diverse: lanciata in due direzioni diverse, la nostra lingua tende a essere ricondotta di fronte a se stessa e costretta a incrociarsi sempre con l'altro del medesimo.

"L'identità delle parole - il semplice fatto fondamentale, nel linguaggio, che esistano meno vocaboli che designano cose da designare - è essa stessa un'esperienza del duplice aspetto: essa rivela nella parola il luogo di un incontro imprevisto fra le figure più lontane nel mondo (è la distanza abolita, il punto di scontro degli esseri, la differenza raccolta su se stessa in forma unica, doppia, ambigua, minotaurica). Mostra inoltre uno sdoppiamento del linguaggio che, a partire da un unico nucleo, si stacca da se stesso e continua a far nascere nuove figure"

(M. Foucault, RR, op. cit., p.42)

Alla perdita di senso si accompagna la continua genesi di senso e viceversa: il linguaggio, di fatto, incontra l'origine di un movimento che si svolge al suo interno e il suo legame con ciò che dice può metamorfizzarsi senza che la forma muti, quasi esso giri su se stesso, tracciando un cerchio di possibilità (il "senso" della parola) attorno a un punto fisso e permettendo perciò azzardi, incontri, effetti e tutti gli sforzi più o meno concertati del gioco. È proprio in questo spazio di movimento, o "spazio tropologico" stando al vocabolario di Cèsar Dumarsais, che possono nascere tutte le figure della retorica: catacresi, metonimia, metalepsi, sineddoche, antonomasia, litote, metafora, ipallage e tanti altri geroglifici disegnati dalla rotazione delle parole nel volume del linguaggio. Svelati questi "arcani" della rappresentazione, se non è più possibile sdoppiare il reale attraverso un altro mondo, lo si fa comunque mediante "gli sdoppiamenti spontanei del linguaggio: scoprire uno spazio insospettato per ricoprirlo ancora di cose non dette" (ibidem, p. 44).

Una nuova domanda, a questo punto, torna a inquietare il soggetto: possibile che il metaverso delle immagini (lo spazio rappresentato del visibile) altro non sia che il prodotto del metaverso (l'enunciato invisibile) della parola ? (continua 5.3)