4.5 La scoperta del Doppio

09.02.2023

Dalla letteratura successiva al XVIII secolo, ogni opera non riesce più a chiudersi su stessa, ma lascia emergere l'enigmatico fenomeno dell'intermittenza dei simulacri: l'alternativa è fra condanna al silenzio o parola trasgressiva

(se non letto prima, sirimanda al post "4.4 Il linguaggio è un gioco di specchi")

Dalla pittura alla letteratura "trasgressiva". L'esercizio di uno sguardo obliquo su qualsiasi forma del sapere, al contempo estraneo da obiettivi sistemici, fa di Foucault il maestro antesignano della transdisciplinarità. È fra i primi, infatti, a indagare una letteratura che violi specifici interdetti del linguaggio, "sottomettendo una parola apparentemente conforme al codice riconosciuto, ad un altro codice la cui chiave è data da questa stessa parola", cosicché la parola "dice ciò che dice, ma aggiunge un surplus muto che enuncia silenziosamente ciò che dice e il codice in base al quale lo dice".

Il filosofo di Poitiers continua ad allargare la propria ricerca a quello spazio del non senso nel quale il linguaggio manifesta di rimandare solo a se stesso, staccandosi dall'idea tradizionale di senso: nel lasciar parlare il vuoto, viene gradualmente all'evidenza quel "procedimento" (stando alla terminologia del Raymond Roussel) che - in funzione di automatismi consolidati - stratifica il segreto al di sotto del quale l'uomo pretende di vedere il senso della propria esistenza. C'è però un problema: questo senso, che nel tentativo di descrivere una Verità assoluta si vorrebbe trascendente e ordinante, o anche immanente alla natura delle "cose", non è mai dato da alcunché, bensì "prodotto" da meccanismi cui facciamo ricorso per comunicare le nostre verità inevitabilmente soggettive. La Verità con la "V" maiuscola, in sostanza, altro non è che il risultato ossificato di molteplici verità in divenire: la scoperta dell'impossibilità di trascendere se stessi, dell'autoreferenzialità già da sempre data, palesa una falsa verticalità: l'identico è sempre doppio, tranne forse per quella sottilissima striscia che nessuno sguardo riesce a cogliere, se non di riflesso, là dove l'evento che apre a una nuova figura di significato è a sua volta figura di un nuovo evento: la congiuntura.

Preso atto del carattere "destabilizzante" di una simile scoperta, che sul fronte della letteratura Foucault colloca all'incirca negli ultimi anni del XVIII secolo (cfr. Il linguaggio all'infinito, op. cit., p. 79), non è più possibile concepire un'opera il cui senso sia quello di chiudersi in se stessa, lasciando parlare la sua sola gloria. Ciascun meccanismo di finzione che, sino a quel momento, aveva permesso di distogliere lo sguardo dal gesto creativo di chi lo istituiva, così come di stabilire una dimensione di continuità fra mondo delle cose e delle parole ("si annullano nella loro scrittura soltanto in vista della sovranità di ciò che vogliono dire e che è fuori delle parole...", ibidem, p.79), è diventato infine l'unica verità dicibile. Ecco perché, nell'epoca contemporanea, la verità coincide con la tecnica: da essa è prodotta, ma chiamata contemporaneamente a giustificare il proprio statuto. Un circolo asfittico che ruota sul vuoto lasciato dalla vecchia metafisica, consegnando l'uomo alla radicalità di un "fuori" privo di qualsiasi giustificazione, dove regnano solo puri rapporti di forza.

Il gioco di sguardi colto nell'opera di Velasquez, e delineatosi attraverso le concomitanti riflessioni dello specchio nello specchio, produce di fatto l'enigmatico fenomeno dell'intermittenza dei simulacri: se nello sguardo il guardante appare sdoppiato, la situazione si complica ulteriormente quando, sul piano della realtà, viene riconosciuta la scena di un falso teatro, a sua volta luogo di un'irreparabile scissione ontologica. Siamo qualcosa e al tempo stesso la negazione di questo qualcosa, sia nei confronti di noi stessi, che dell'altro. Il rischio più insidioso risulta allora quello dell'incomunicabilità: non sappiamo più cosa vediamo, né possiamo dire cosa e se realmente vediamo. Addirittura, scopriamo di non avere più neppure un luogo dove collocarci.

Per offrire una via di fuga da questo cul de sac, Foucault ricorre all'immagine di 'Diana al Bagno', la dea che si nasconde nell'acqua nel momento in cui si offre inconsapevolmente allo sguardo di Atteone (cfr. La prosa di Atteone, in Scritti letterari, op.cit., p.97). Ella "non è soltanto la deviazione degli dei greci, è il momento dove l'unità intatta del divino riflette la propria divinità in un corpo verginale, e così facendo si sdoppia, distanziandosi da se stessa, in un demone che la fa apparire casta e nello stesso tempo la offre alla violenza del Capro, e quando la divinità cessa di sfavillare nella radura per sdoppiarsi nell'apparenza, dove soccombe giustificando se stessa, allora esce dallo spazio mitico ed entra nel campo dei teologi. La traccia desiderabile degli dei si raccoglie (forse si perde) nel tabernacolo e nel gioco ambiguo dei segni".

La scoperta del "doppio" ha decretato la fine della parola pura del mito, una parola che comunicava attraverso l'immediatezza dell'immagine gestuale, in grado di scandire chiaramente il rapporto fra visibile e invisibile. L'universale lingua dei simboli, come ipotizzata da René Alleau ne La scienza dei simboli (Sansoni, Firenze 1983), non è certamente la lingua dell'uomo civilizzato.

"Si può ricordare che già nell'area della civiltà ellenistica, già al tempo dei greci, la riduzione del mythos al logos da parte dei critici razionalisti costituisce un fatto abbastanza caratteristico di evoluzione culturale. Ai tempi di Tucidide, quindi ai tempi di una grecità già molto scaltrita, l'aggettivo mythos significava già favoloso, non dimostrato, in opposizione a una verità e a una realtà....questa critica riduttrice della lingua degli Dei che la assimila alla lingua della cultura, vedendo nei simboli soltanto i segni di un linguaggio umano non è dunque una scoperta moderna, bensì un fenomeno di ogni cultura desacralizzata"

(sulla tematica legata al rapporto fra mythos e logos, si rimanda a C. Sini, "Il simbolo e l'uomo", Egea, Milano 1991).

Si pone allora il problema di come sia possibile trascrivere l'ordine perduto dei simulacri antichi in un linguaggio comprensibile: "Tam dira cupido. È questo desiderio che la dea ha messo nel cuore di Atteone nel momento della metamorfosi e della morte: se puoi descrivere la nudità di Diana, fallo pure" (ib., p.97). La sfida lanciata all'uomo contemporaneo, che si ritrova a vivere l'imbarazzo di Atteone, non lascia molte alternative: o la condanna al silenzio, all'incomunicabilità, o il ricorso a un parola che, in quanto parola scaturita dall'annientamento del mito, è necessariamente "parola trasgressiva".

Grazie a scrittori come Georges Bataille e Maurice Blanchot, oggi sappiamo che il linguaggio deve il suo potere trasgressivo al rapporto in base al quale una parola "impura" prende forma nei confronti di un silenzio "puro". L'essere del linguaggio non concerne né gli uomini né i segni, ma lo spazio del doppio, il vuoto del simulacro, attraverso cui si delineano la distanza e la prossimità del Medesimo. Conseguentemente le uniche forme possibili di linguaggio, che già si annunciavano nei colpi di scena spettacolari della letteratura ottocentesca, sono quelle "doppie".

"Questi linguaggi, continuamente tratti fuori da se stessi attraverso l'innumerevole, l'indicibile, il brivido, lo stupore, l'estasi, il mutismo, la violenza pura, il gesto senza parola...molto stranamente sono linguaggi che rappresentano se stessi in una cerimonia lenta, meticolosa e prolungata all'infinito. Questi linguaggi semplici, che nominano e fanno vedere, sono linguaggi stranamente doppi"

(M. Fouacault, Il linguaggio all'infinito, op.cit., p.79)

Come offrirne, tuttavia, una spiegazione convincente? (continua 4.6)