4.4 Il linguaggio è un gioco di specchi
Le duplicazioni messe in atto dal linguaggio non sono mai immediatamente visibili nelle parole e nelle cose, ma vengono svelate dai ripiegamenti dell'arte. Lo stratagemma della pittura di Velazquez
(se non letto prima, si rimanda al post "4.3 L'era delle eterotopie")
Quando Omero afferma che gli dei inviano le sofferenze agli umani affinché possano raccontarle, la trasformazione del linguaggio in luogo della riflessione è già cominciata. Avvicinando la linea del dolore e della morte, gradualmente esso si scopre specchio della realtà. Coglie il potere di "far nascere la propria immagine in un gioco di specchi che, a sua volta, non ha limiti" (M. Foucault, Il linguaggio all'infinito, Scritti letterari, op. cit., p.74).
È infatti questo il suo unico modo per fermare la morte che lo fermerà. La morte, di riflesso, assume i caratteri del luogo originario, della prima piega del linguaggio che, successivamente, darà adito ad altre duplicazioni: in primis, la scrittura alfabetica, essendo in grado di rappresentare non il significato, ma gli elementi fonetici che lo significano. Lo stesso, invece, non avviene con l'ideogramma o il calligramma, rappresentando il significato in modo diretto e indipendentemente dal sistema fonetico.
"Scrivere, per la cultura occidentale, sarebbe di primo acchito piazzarsi nello spazio virtuale dell'autorappresentazione e del raddoppiamento; dal momento che la scrittura significa non la cosa ma la parola, l'opera di linguaggio non farebbe altro che avanzare più profondamente in quest'impalpabile spessore dello specchio, suscitare il doppio di questo doppio che è già la scrittura, scoprire così un infinito possibile e impossibile..."
(ibidem, p.75)
Nella tradizione occidentale, però, scrivere ha significato anche subordinarsi al tempo, al di là di qualsiasi tentativo di rifuggirne la morsa asfissiante sganciandosi dalla forma classica del racconto, dal suo ordine lineare, dal gran gioco sintattico della concordanza dei tempi. Nel momento in cui la scrittura si è sottomessa all'ordine delle cronologie, è stata presa da quell'invisibile morsa in funzione della quale "scrivere significava ritornare, risalire all'origine, riappropriarsi del primo momento" (M. Foucault, Il linguaggio dello spazio, in Spazi Altri, op. cit., p. 33).
Solo la letteratura moderna è però riuscita a mostrare al meglio come lo scarto, la distanza e l'intermediazione, ma anche la dispersione, la frattura e la differenza lascino emergere la dimensione spaziale del linguaggio.
"È nello spazio che il linguaggio appena posto si dispiega, scivola su se stesso, determina le proprie scelte, disegna le sue figure e le sue traslazioni. È in esso che si trasporta, che il suo stesso essere si «metaforizza»"
(ibidem, p. 34)
Il linguaggio prende cioé forma in uno spazio virtuale dove la parola trova la fonte indefinita della sua propria immagine e dove l'infinito può rappresentarsi già là "come dietro se stesso" e già là "come oltre se stesso". Perché, per Foucault, trovare un luogo di emersione del linguaggio è ancor più importante che analizzarne le modalità di funzionamento? Cosa lo spinge a cercare innanzitutto i casi di autorappresentazione del linguaggio? A essere in gioco, di fatto, sono quelle condizioni di possibilità che sole garantiscono la libera e consapevole strutturazione del soggetto nel linguaggio; un soggetto "neutro" , un "esso" senza volto, ma grazie al quale, anche, ogni linguaggio può emergere. È infatti nel ripiegamento del tempo che si dà a a vedere uno spazio vuoto, una distanza non ancora nominata in cui il linguaggio si precipita. Tale è il suo potere: ambiguo e duplice.
Già da sempre intessuto di spazio, il linguaggio lo chiama all'essere attraverso l'apertura originaria della parola e lo preleva dalla realtà per riprenderlo in sé. Se le parole non rispecchiano le cose ma solo se stesse, allora i corpi possono prendere forma solo in virtù di un esercizio di scrittura, al di là di qualsiasi "oggettività" naturale. Ne discende che l'uomo non è una statica creazione del discorso, bensì il prodotto di un discorso continuo: è questo stesso discorso che si legge, si rilegge e si interpreta sotto molteplici punti di vista.
È ancor oggi di grande aiuto alla comprensione lo studio della funzione dello specchio nel quadro "Las Meninas" di Velazquez, utilizzato dal pittore spagnolo per portare alla luce proprio i meccanismi del suo particolare tipo di scrittura, la pittura:
"anziché indugiare presso gli oggetti visibili, lo specchio traversa l'intero campo della rappresentazione trascurando ciò che potrebbe captarne, e restituisce la visibilità a ciò che si mantiene fuori da ogni sguardo"
(M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p.22)
Lo specchio, al di là dell'importanza del soggetto raffigurato (la famiglia reale di Spagna), non mira a chiarire il significato del quadro aggiungendo particolari indispensabili per la comprensione di ciò che in esso è rappresentato, ma orienta l'attenzione sull'evento e sul procedimento che porta alla sua costituzione. Si potrebbe affermare addirittura che il soggetto è puramente accessorio. Lo sforzo del pittore è tutto riposto nel far vedere ciò che necessariamente è condannato a rimanere fuori dal piano della visibilità. Il quadro prova a offrire un sorprendente esempio di pittura "panoptica", in virtù della quale è la tecnica a parlare e a far parlare, ancor prima delle immagini. Non è infatti casuale che a guidare la lettura del quadro sia proprio il gioco degli sguardi.
"L'invisibilità che esso supera non è quella di ciò che è occultato: non aggira un ostacolo, non svia una prospettiva, si rivolge a quanto è reso invisibile sia dalla struttura del quadro sia dalla sua esistenza come dipinto. Ciò che in esso si riflette è ciò che tutti i personaggi della tela stanno fissando, lo sguardo dritto davanti a sé: è dunque ciò che potrebbe essere veduto se la tela si prolungasse anteriormente scendendo ancora fino ad avvolgere i personaggi che servono da modelli al pittore...Lo specchio assicura una metatesi della visibilità che incide, a un tempo, nello spazio rappresentato nel quadro e nella sua natura di rappresentazione: mostra, al centro della tela, ciò che del quadro è reso due volte necessariamente invisibile".
Questo linguaggio "primo" appare sempre in eccesso, non può evitare di automoltiplicarsi, spingendosi al di là del limite: si alleggerisce di ogni pesantezza ontologica ed è così privo di densità che è destinato a prolungarsi all'infinito, senza acquistare mai la pesantezza che potrebbe immobilizzarlo. È forse questa la "verità" dell'arte? (continua 4.5)