5.8 Riscrivere lo spazio e il tempo attraverso l'arte

27.02.2023

L'ipertesto espanso dai link, così come l'immagine digitale soggetta a ripetuta definizione, esibiscono al massimo grado le possibilità manipolatorie delle procedure di controllo, ma impediscono il processo di sintesi che stratifica la memoria. Lasciando circolare le differenze è invece possibile abitare le aperture di senso

(se non letto prima, si rimanda al post "5.7 Il filo rosso del linguaggio nel labirinto della comunicazione)"

Funzione primaria del "procedimento creativo" del linguaggio, studiato da Foucault attraverso le complesse tecniche retoriche dello scrittore Raymond Roussel, è innanzitutto quella di liberare il tempo dalla sua reiterata (e ormai invisibile) concezione metafisica.

Al giornaliero o allo stagionale, metri "difettosi" del costante accadere della vita perché dipendenti dalla sua imprevedibile materialità, è stato oggi sostituito il "live (feedback)", cioè l'istantaneità del rapporto trasmissione-ricezione che abilita e conferma la possibilità di interazione: una trasformazione rivelatasi ottimale non solo per l'evoluzione tecnologica dei mezzi di comunicazione, ma anche per l'effetto di progressiva rarefazione dell'alterità: in primis, sotto forma di annullamento della distanza fisica prodotta dalla riduzione della Terra a globo interconnesso.

Se storicamente, in Occidente, l'uomo ha individuato nella ricostruzione matematica e geometrica della realtà il modello ideale per padroneggiare l'alea della vita, occorre oggi accingersi a una nuova impresa gnoseologica che metta in correlazione gli effetti del tempo live e del tempo cronologico: adottare, secondo le parole di Paul Virilio, una prospettiva stereoscopica capace di restituire senso all'accadere attraverso il suo inevitabile ispessimento d'attrito. La cumulazione di dati, al pari della descrizione ossessiva dei dettagli nei testi di Roussel, non è infatti un processo meramente transitorio: non funziona con effetti "pop-up", di apertura e repentina scomparsa rispetto allo sguardo o all'ascolto del soggetto. Al di là della consapevolezza che questi può averne, il loro effetto lascia un'impronta nell'organicità del corpo individuale, con riverberi su quello sociale: un gesto anomalo, un profilo sfuggente o un'espressione inaspettata sono in grado di rivelare nel soggetto una natura, in cui essere e tempo tornano a riallinearsi nella forma di un presente che non passa. La memoria organica.

La visibilità, in tal modo, non è più solo un fenomeno che pertiene lo sguardo e la coscienza: è un effetto di retro-attività che non sta al di là dell'occhio o dell'oggetto, in uno spazio raggiungibile dallo sguardo, bensì nel loro "tra", come condizione di possibilità della visibilità stessa. Grazie a questo ulteriore "strato di ispessimento" della percezione, occhio e cose non sono, né possono mai essere situate nello stesso spazio: l'occhio non può reclamare alcuna priorità gerarchica del proprio punto di vista (come pretendeva invece la metafisica di Aristotele, alla base della moderna scienza), né tanto mento possono le sue abitudini visive. L'occhio "euristico-esplorativo", differentemente da quello possessivo della tecno-politica, non deve far altro che lasciar essere ciò che ha di fronte: sospendere l'urgenza di definire e catalogare l'incognita dell'incontro per trovarle un senso nella sola dimensione dell'uso, ma anche di ridurre l'oggetto a manifestazione di un modello conoscitivo consolidatosi per mera abitudine, senza alcuna effettiva "universalità": l'invisibile, allora, è solo una forma di cecità rispetto alla multidimensionalità dello spazio conoscitivo, non un segreto già di per sé formato e concluso, ma non ancora "scoperto". Qualcosa che sta da sempre lì, circoscritto in uno spazio storicamente immutabile, pronto per essere colto dalla nostra accresciuta competenza e destrezza scientifica.

La conoscenza del profondo si realizza perciò con una "messa in parentesi" dell'occhio, che oltre a modificare la percezione temporale, rivoluziona conseguentemente quella spaziale. Non è un caso che il "gioco delle parentesi" sia proprio uno dei principali stratagemmi cui Roussel ricorre per esaltare l'artificium dei suoi testi: un ispessimento della parola discorsiva che prolifera per gradi superiori, dalla frase zero sino alla nona moltiplicazione, in certi casi, con l'obiettivo di operare una stratificazione piramidale del linguaggio. L'apertura delle parentesi successive serve infatti a indirizzare verso un punto di fuga apparentemente inaccessibile. Per realizzare questa tecnica, senso e cose vengono legate attraverso un linguaggio ellittico. Gli oggetti non sono considerati per ciò che sono o per il luogo in cui si trovano, ma descritti nella loro apparenza, a partire da un lontano e aneddotico dettaglio che, portandoli in luce, li lascia all'interno di una parentesi grigia, raggiungibile tramite un percorso più o meno labirintico: quasi che le cose si succedessero in uno spazio sospeso fra una materialità dimenticata e una terra non ancora avvistata. A ogni istante, le parole nascono dall'assenza di essere, sorgendo le une contro le altre, o a coppie antitetiche, o a coppie di forma analoga; oppure sono raggruppate secondo accostamenti incongrui e somiglianze illusorie, per serie della stessa specie. In questo modo l'identità delle cose viene a perdersi definitivamente nell'ambiguità del linguaggio; ma questa forma, trattata con la ripetizione concertata delle parole, ha anche il privilegio di generare un mondo di cose mai viste, impossibili, uniche: l'uomo del discorso logico si trasforma in un soggetto a "versificazione ontologica" (ibidem, p. 169) che è trasceso e fondato dalla parola stessa, prendendo forma in una regione "dove la prima e la terza persona si confondono e lo svelamento di sé porta alla luce il terzo che, da sempre, parla e resta lo stesso" (p.179) .

Attraverso il "gioco delle parentesi" testuali Roussel anticipa di fatto la nozione di "ipertesto", dispiegando chiaramente le conseguenze che esso provoca sul soggetto-lettore. Un ipertesto è infatti un testo composto di singoli spezzoni, o lessie, uniti da collegamenti elettronici. Le relazioni, che nelle forme di testo "analogiche" venivano generate a livello mentale, trovano qui un modo di formulazione pre-direzionato. Pre-ordinato. L'esperienza di lettura di un ipertesto diviene simile a quella indotta dal "vecchio" contenuto enciclopedico, scientifico o scolastico: cominciamo a leggere, arriviamo a un numero di postilla, interrompiamo per vedere cosa dice la postilla. Se in essa sono presenti ulteriori rimandi, l'ormai desueta modalità "analogica" potrebbe richiedere di verificare il contenuto cercando un ulteriore volume negli scaffali di una libreria o di una biblioteca, tornando quindi indietro e riprendendo a leggere. Che si tratti di lettura analogica o digitale, questa avviene comunque "a scatti", riprendendo e abbandonando il testo, cosicché ogni contenuto possa essere letto secondo linee multiple.

Non abbiamo più di fronte un semplice blocco discorsivo che segue la medesima linea argomentativa, ma un aggregato di informazioni nel quale le linee necessarie alla comprensione si moltiplicano e si intrecciano. Il processo di comprensione sintentica viene così frammentato, a favore di un metodo analitico espansivo, ma al tempo stesso dissipativo.

"La caratteristica di questa nuova forma di interazione sta nella possibilità di scelta del lettore. Quando si legge una storia o quando si leggono informazioni, si può scegliere di deviare e andare da una parte o da un'altra. Nel sommario di un libro dovrebbe essere presente l'indicazione dall'autore che mostra, ad esempio, l'esistenza di tre distinte ragioni di considerare lo stesso: si va all'elemento uno all'elemento due, quindi all'elemento tre. In un ipertesto, l'autore può invece suggerire che esistono queste tre possibilità e che dipenderà solo dal lettore seguire qualsivoglia direzione, ammesso che lo voglia. Inoltre, in un ipertesto voluminoso, si collegano testi di diversi autori. Come ha fatto notare un mio amico alla 'Apple Computer', se si vuole scrivere per il world wide web, è necessario rinunciare a un po' del proprio controllo" (George Landow, Il confine aperto del testo, intervista per Mediamente del 14 novembre 1996)

Se unire il proprio testo a quello di un altro è ora possibile grazie a un semplice collegamento digitale (link), attraverso il web chiunque dispone virtualmente della possibilità di collegarsi con il proprio, al di là dei filtri peer-to-peer (la revisione fra pari che giustifica una pubblicazione ufficiale o scientifica). Jacques Derrida parla a riguardo di un "confine aperto del testo": secondo il filosofo franco-algerino è ormai impossibile riconoscere l'esistenza di un interno coerente, separato dall'esterno. Nel mondo della stampa, infatti, le affermazioni di un autore esterno non avrebbero alcun senso, se non venissero autorizzate e collegate attraverso una costruzione argomentativa in linea col procedimento intrinseco del testo. Nell'ipertesto, al contrario, gli aggiornamenti sono considerati tanto necessari quanto scontati, senza tuttavia porre, di volta in volta, alcuna questione di armonizzazione metodologica. Lo standard d'autorizzazione, là dove ancora sia presente, fa riferimento a parametri d'auctoritas professionale, anziché di coerenza testuale.

È ancora Landow (ibidem) ad affermare che:

"sembra che ci sia una chiara relazione tra il poststrutturalismo, il postmodernismo e la testualità digitale. Ma non pare chiaro se i collegamenti siano dovuti al fatto che questi fenomeni si presentino semplicemente allo stesso tempo, oppure se - e trovo questa seconda possibilità più attraente - sia il poststrutturalismo che la testualità digitale nascono come critica dei libri, dei libri stampati. Ambedue sono risposte a ciò che manca al tipo di pensiero che nasce dalla lettura e dalla scrittura del libro stampato".

Quando Michail Bachtin esortava alla multivocalità, cioè all'elaborazione di testi che abbiano più di una voce gerarchica (auctoritas), tale proposta sembrava esser solo foriera di caos nel mondo dei testi stampati; in realtà, il critico russo non stava facendo altro che anticipare quel che oggi avviene in Internet. Quando Derrida, a sua volta, sosteneva che non è più possibile distinguere tra un interno e un esterno, e che la decostruzione è un modo di demolire false opposizioni, trova paradossalmente un riscontro perfetto alle sue parole proprio nel web. La rete digitale mette indubbiamente in evidenza il modo in cui i testi si fondano l'uno con l'altro e come siano reciprocamente collegati in modi diversi, ma al tempo stesso lasciano emergere profonde fratture rispetto alla possibilità di elaborazione sintetica del soggetto. Anche quando Roland Barthes o Foucault parlano della necessità di una riconsiderazione della nostra idea dell'autore, non si limitano a dire che gli autori, in quanto soggetti, siano improvvisamente morti; sostengono invece che la nostra vecchia nozione di scrittore/autore - in quanto figura creativa isolata e ancorata alle dinamiche socio-produttive della stampa - debba essere riconfigurata rispetto alla nuova "materialità" del mondo digitale, come come già verificatosi con l'avvento della cinematografia o delle orchestre sinfoniche.

Non c'è dubbio, infatti, che la maggior parte della creatività sia impresa di gruppo, né che i contenuti siano il frutto di una straordinaria produzione ex novo, generati magicamente dal nulla: ogni risultato dipende sempre dalle reti (visibili o invisibili) della tecnologia d'informazione e della memoria collettiva dei lavori passati. Ad essere in gioco non sono tanto il ruolo e la funzione dell'autore, quanto la capacità trasformativa/educativa dell'opera sul soggetto.

"Dopo tutto, la maggior parte dei sonetti, sia quelli di Petrarca, sia quelli di Dante, sono scritti sulle donne a cui vengono indirizzati. La maggior parte dei romanzi hanno in mente i grandi scrittori precedenti. Sicuramente Milton e Dante scrivevano tanto di Omero quanto delle proprie idee. Ma noi abbiamo avuto la tendenza a dimenticare questo tipo di relazioni, ponendo, nel mondo della stampa, l'enfasi sui diritti d'autore e sulla proprietà privata, quando, in realtà, tutto quello che facciamo quando siamo creativi è manipolare le cose in un modo nuovo e più meraviglioso, senza necessariamente crearlo. Fino al mondo della stampa, fino al Romanticismo, era inteso che l'unica persona, l'unica entità che poteva creare, fosse Dio. Il resto di noi combina solamente. Il poststrutturalismo sembra essere tornato sulle posizioni del Rinascimento" (Landow, ib.)

Se la possibilità di vedere non dipende da un'oggettività del dato, ma dalla soggettività dell'occhio, è chiaro che il controllo dell'informazione può a sua volta essere manovrato attraverso una strategia che miri a far vedere solo ciò che si vuole far vedere, senza per questo doversi rendere invisibili: occorre allora unire un punto di vista verticale (che permetta di abbracciare tutto come in un cerchio) a uno orizzontale (che collochi l'occhio "rasoterra", lasciandogli come unica possibilità il primo piano), in modo tale che tutto possa essere visto in prospettiva e, al tempo stesso, ogni cosa collocata al centro.

"Esiste non un punto privilegiato attorno al quale il paesaggio (significativo, ndr) si organizza, per poi, allontanandosi a poco a poco, sparire, ma tutta una serie di piccole celle spaziali di dimensioni simili, poste le une accanto alle altre, senza reciproche proporzioni…la loro posizione è definita secondo un criterio di prossimità che permette di passare dall'una all'altra come se fossero gli anelli di una catena"

(ibidem, p.131)

Foucault punta a restituire iniziativa al soggetto lavorando alla ridefinizione del suo rapporto con quanto lo lega al piano temporale (testo), così come a quello spaziale (immagine), onde far giocare a suo favore le procedure di controllo e potere sempre in atto nella formazione del sapere. Vicine o lontane, attraverso le tecnologie del controllo le scene offerte allo sguardo del soggetto garantiscono sempre la stessa innaturale misura, potendo essere viste con precisione sempre maggiore, come se ciascuna avesse un uguale e imprescrittibile diritto a essere vista. Esattamente come accade nei quadri della pittura fiamminga, dove tutto è "a fuoco". Questo tipo di controllo, tuttavia, plasma lo sguardo del soggetto sugli effetti di superficie, anziché di profondità, impedendogli la necessaria stratificazione spazio-termporale.


È per questo che Foucault continua a rimandare alla presenza di una luce "seconda", che non sta mai nell'intervallo o sul fondo delle cose, ma sorge in ciascuna di esse solo in virtù di determinate pratiche di vita. Nel saggio La pittura di Manet (La città del Sole, Napoli 1996), ad esempio, Foucault invita a far leva su tre principi "utili a incrinare il senso comune della percezione: attenzione alla materialità dello spazio, rinnovata concezione della luce, posto dello spettatore rispetto all'opera. La rottura profonda di Manet, che ha aperto sul fronte della pittura la soglia della contemporaneità, consiste nel fatto che egli fa giocare all'interno stesso dei suoi quadri, di ciò che rappresentava, le proprietà materiali dello spazio su cui dipingeva".

Manet opera cioè una corrosione dell'idea di rappresentazione: riguadagnando alla pittura la materialità dello spazio, fa della superficie la distesa della drammaturgia dei segni e della luce. Così punto, linea, superficie (come dirà più tardi Kandinsky) e la luce divengono la "stoffa" di cui è fatta l'opera. Egli re-inventa o forse inventa il quadro-oggetto come materialità, come cosa colorata illuminata da una luce esterna e davanti al quale e attorno al quale lo spettatore gira. Il quadro-oggetto, come quadro illuminato da luce esterna (ciò proveniente dallo stesso punto dell'osservante e non da un punto "illusorio" all'interno della cornice) è la via che l'arte del Novecento ha seguito per stare il più possibile lontana dalla trappola della rappresentazione: l'illusione di uno spazio costruito secondo le regole del codice prospettico rinascimentale, che tiene sotto controllo la "magia" dell'immagine, la sua capacità di mutare in virtù dell'apparenza, dei suoi silenzi e degli effetti di vertigine.

Foucault mette dunque a nudo le contraddizioni e le conseguenze di una concezione della pittura come spazio della rappresentazione e luogo dell'illusione prospettica. Contemporaneamente offre strumenti di lettura per smascherare quali siano le cardinalità percettive su cui opera lo sguardo del controllo nella nostra società. Esiste infatti un'analogia manifesta fra il processo di occlusione dello spazio e la costante riconduzione alla superficie del soggetto, nel tentativo di rendere indifferente il suo ruolo ermeneutico. Nell'Exècution de Maximilien (1867), ad esempio, è dipinto un muro a sbarrare la profondità: questa chiusura violenta dello spazio a opera di una barriera, che altro non è se non il raddoppiamento della tela stessa, suggerisce come Manet apra uno "spazio pittorico in cui la distanza non si offre più alla vista, in cui la profondità non è più oggetto di percezione". La superficie, oltre a essere uno spazio bidimensionale, è al tempo stesso un luogo a due facce, uno anteriore, visibile, e uno posteriore, invisibile (si consideri a riguardo Le serveuse de bocks, 1878, intreccio di sguardi che non mostrano niente proprio perché nell'opera non c'è assolutamente niente). La superficie mostra solo l'invisibile e non fa che indicare attraverso sguardi opposti qualcosa d'invisibile avanti e dietro la tela. Con le sue due facce retro-verso, la superficie non è un spazio in cui si manifesta una visibilità; è il luogo che assicura, al contrario, l'invisibilità di ciò che è guardato dai personaggi sul piano del quadro.


Ecco l'obiettivo di Manet: riguadagnare la superficie, il gioco delle orizzontali e delle verticali e marcare la fine del dominio della profondità artificiale, l'illusorietà della terza dimensione e di qualunque meta-fisica. Se la superficie non è il luogo in cui si manifesta la visibilità, ma al contrario il luogo che assicura l'invisibilità di ciò che è guardato dai personaggi sul piano del quadro, allora essa opera allo stesso modo tanto nel quadro quanto nell'immagine della telecamera. Artisti come Magritte o Wahrol, nella nostra epoca, hanno mostrato il luogo estremo della scissura fra somiglianza e similitudine, giacché la somiglianza serve alla rappresentazione (che vi regna sopra), mentre la similitudine serve alla ripetizione (che vi corre attraverso).

"L'America di Wahrol è orizzontale, senza profondità e oltre ogni rimando a ulteriorità e alterità. È diversa dall'America e da New York messe in scena da Baudrillard. In Warhol non c'è verticalità, ma il quotidiano nel quale si svolgono e si ripetono gli attimi indifferenti della nostra vita e nel quale abitiamo"

(Angelo Trimarico in "La pittura di Manet", M. Foucault, op. cit., p.17)

L'arte, come la realtà, è un gioco senza fine di immagini che prendono il posto delle cose e degli oggetti, dei sentimenti e delle emozioni. Proiettando il nostro sguardo lungo la storia, possiamo constatare come, dal XV secolo, la pittura abbia sistematicamente cercato di negare lo spazio sul quale si dipingeva. Fissava un posto ideale a partire dal quale si poteva e si doveva vedere il quadro. Al contrario, all'interno stesso di ciò che era rappresentato nel quadro, Manet fa sorgere queste proprietà, queste qualità o queste limitazioni materiali della tela che la tradizione pittorica aveva avuto per missione di eludere e di mascherare. In Le bal masquè à l'Opèra possiamo poi apprezzare una sorta di "fenomeno di rilievo": i personaggi avanzano e il nero degli abiti e dei vestiti blocca assolutamente tutto quello che colori chiari avrebbero potuto aprire in fatto di spazio. In L'Execution, invece, si punta a far diminuire i personaggi senza ripartirli sul piano (tecnica del primo Quattrocento) per significare o simbolizzare una distanza che non è realmente rappresentata: si stimola cioè un riconoscimento intellettuale, non percettivo.

In passato la percezione pittorica doveva essere una sorta di ripetizione, di raddoppiamento, di riproduzione della percezione quotidiana: Manet fa l'opposto. Opera una rappresentazione geometrica della geometria stessa della tela; sopprime la luce interna e la rimpiazza con una luce reale, esterna e frontale (qui si spiega lo scandalo del "nudo" dell'Olympia, che viene "svestita" non dal pittore, ma dall'osservatore: lei è visibile ai nostri occhi perché siamo noi a renderla nuda). In Un bar aux Folies-Bergères emerge infine l'inusitata proprietà del quadro di non essere uno spazio normativo, nel quale la rappresentazione non garantisce allo spettatore un punto unico da cui guardare, ma uno spazio in rapporto al quale spostarsi.

"Lo spazio non è mai un oggetto da descrivere né la dimensione fisica nella quale si realizza la scrittura, né un insieme di metafore da applicare ad altri dominii. Lo spazio è piuttosto considerato come la dimensione teorica che costituisce il luogo comune delle parole e delle cose"

(Francesco Sadorno, ibidem, p. 50)

Gli oggetti sono così destinati ad assumere, in uno spazio frammentato e senza misura, l'aspetto di fari intermittenti che segnalano non la loro reale posizione, ma semplicemente, a un dato istante, la loro esistenza. Se in superficie emerge solo il tempo dell'istante, come se fosse un frammento senza radici, è allora chiaro che la dimensione del segreto non può essere violata, perché l'essere si presenta nella forma dell'enigma. Ne deriva una strana figura di uomo, al tempo stesso circolare e rettilinea: circolare poiché di lui, nella società del controllo, tutto è offerto alla vista, senza punto di fuga, senza possibilità di riparo; ma proprio questa inesauribile ricchezza del visibile ha la proprietà (correlativa e contraria) di profilarsi lungo una linea infinita. Ciò che è del tutto visibile non è mai visto interamente, ma presenta qualcos'altro che chiede di essere ancora guardato. Non giungiamo mai al termine; forse l'essenziale non è ancora stato visto o, piuttosto, non si sa se lo si sia visto, se non sia ancora arrivato il suo turno in questa incessante proliferazione.

"Il tempo è perduto nello spazio, o meglio esso si ritrova sempre in questa impossibile e profonda figura della retta che è, al tempo stesso, un cerchio: ciò che non ha fine, si rivela dunque identico a ciò che ricomincia"

(M. Foucault, RR, op.cit., p.134)

Il rischio di portare alla luce persino l'impercettibile può comportare una perdita di senso nei confronti di ciò che si "voleva" realmente osservare, riducendo l'osservatore sullo stesso piano dell'osservato: effimero "dato", ormai privo di qualsiasi ragione d'essere. Non è il senso a mancare, ma i segni, che tuttavia significano solo attraverso questa mancanza. Si tratta di sospendere, nell'esame del linguaggio, non solamente il punto di vista del significato, ma quello del significante, per far apparire il fatto che esista, qui e là, in rapporto con dei campi di oggetti e di soggetti possibili, in rapporto con altre formulazioni e riutilizzazioni eventuali del linguaggio.

"Nell'intricato gioco dell'esistenza e della storia, ci limitiamo a scoprire la legge generale del Gioco dei Segni, nel quale procede la nostra ragionevole storia. Vediamo le cose perché le parole mancano"

(ibidem, p. 187)

Se non ci fossero fratture, mancanze, all'interno del circolo dell'identità, non saremmo in grado di definire il concetto stesso d'identità a partire dalla nostra differenza: è dunque nel linguaggio che va riconosciuta l'eterotopia per eccellenza, il nostro unico e autentico spazio di libertà? (continua 5.9)