5.9 Tenere aperto l'orizzonte

01.03.2023

Per non restare prigionieri di una ragione "fuori controllo", accecata dalle proprie simulazioni, è indispensabile educarsi all'ubiquità e alla transdisciplinarità di una filosofia refrattaria a ogni potere costituito

(se non letto prima, si rimanda al post "5.8 Riscrivere lo spazio e il tempo attraverso l'arte")

Ripercorrere il "procedimento" del linguaggio - la sua arte metaforica e combinatoria che culmina nella genesi di significati extra-soggettivi - è indispensabile per prendere consapevolezza dell'invisibilità che costantemente opera nel vissuto. Invisibilità che, oggi, tendiamo ad associare alla virtualità, la quale ci rivela per converso l'impressionante banalità delle grandi menti immaginifiche: gli autori di utopie.

Se il linguaggio è l'unica fonte in grado di generare originalità, il solo luogo ove vengano a costituirsi formazioni di senso non prevedibili, nessuna utopia può allora dar vita a realtà propriamente nuove, inaudite rispetto al proprio tempo. Sia Thomas More che Fénelon, così come Étienne-Gabriel Morelly, Robert Owen o William Morris, restano infatti ostaggi del "verosimile", a tal punto che Raymond Ruyer ha dichiarato: "quando si leggono più utopie una dietro l'altra, si è colpiti dalla monotonia dell'immaginazione umana".

Astrarsi completamente dalla propria realtà, tuttavia, significa minare la capacità di riorganizzare il presente, di ricostruirlo con intenti responsabili, abbandonandosi a suggestioni effimere quanto i sogni. Se l'utopia ambisce alla rispettabilità, non può che soggiacere alla legge dell'imitazione e della continuità. L'avvenire stesso non deve apparire un futuro coniugato al condizionale, bensì un presente fecondato dai semi di un passato non ancora accaduto, tenendo conto che è il tempo della storia a condizionare sempre e comunque il qui e ora: rompere con questa legge sarebbe già di per sé utopia. Analogamente, l'impronta della nostra vita mostra di avere ben poco d'individuale ed esclusivo, essendo il prodotto di archivi culturali extra-soggettivi.

"Il fatto che non sia più l'evento a generare l'informazione, bensì il contrario, ha conseguenze incalcolabili. Perché è tutto il lavoro del negativo che scompare all'orizzonte dei media – esattamente come il lavoro scompare all'orizzonte del capitale"

(J. Baudrillard, L'illusione della fine, Anabasi, Milano 1993, p.28)

L'uomo contemporaneo appare privo di qualsiasi criterio oggettivo per conferire senso agli accadimenti: la sua scienza dipende dall'arte. La sua utopia dall'eterotopia. Individuare nuovi spazi di libertà, per il soggetto, non è più un grattacapo da tavolino, ma il risultato del suo abbandono al mutevole flusso degli eventi. È ancora Baudrillard ad affermare che "oggi, se l'immaginazione è impossibile, è per la ragione inversa; tutti gli orizzonti sono stati valicati, ci si è confrontati già in anticipo con tutti gli altrove e non resta quindi altro che estasiarsi (nel senso letterale del termine) o ritrarsi davanti a questa estrapolazione inumana".

Baudrillard, però, appare più pessimistico di quanto lascino trasparire le contraddizioni del controllo. Le sue considerazioni muovono dal fatto che alcune società siano rimaste letteralmente senza idee, incapaci d'inventare altro se non slogan pubblicitari che confondono politica e spettacolo, realtà e simulazione, usando come proprio metro l'audience pubblico. L'universo delle immagini televisive è ai suoi occhi ingannatore, dal momento che sa bene come rimescolare le tracce degli enunciati, prima che il tempo di deposito ne permetta la comprensione e l'assimilazione. Sostituendo il reale con le immagini della realtà, per Baudrillard la televisione ha rubato spazio all'immaginazione; avvicinando il distante e alterando la durata ("colui che fa zapping lo sa bene"), la televisione ha dissolto pure il tempo. L'utopia, all'opposto, potrebbe indurre uno sganciamento spaziale finalizzato ad armonizzare i tempi biologici dell'individuale e del sociale.

"Prendersi il proprio tempo", afferma Thierry Paquot, è infatti un atto di ribellione contro un tempo che non ha più territorio, un flusso anonimo senza spazialità. Quel tempo fluttua, invisibile, attraverso il paesaggio, senza più lasciare traccia. Misura semplicemente la redditività degli apparecchi riproduttivi. Avendo a che fare con uno spazio ormai senza contorno e senza frontiere, liquefatto dal mercato così come dalle reti digitali attraverso cui si naviga da tele-porti a tele-poli, la vecchia subordinazione dello spazio al tempo va in ogni caso rigettata. Già Heidegger, nella sua Introduzione alla metafisica (1935), aveva lanciato un monito preveggente: "…il tempo non è più che velocità, istantaneità e simultaneità, mentre il tempo come storicità autentica (Geschichte) è del tutto scomparso dalla realtà di qualsiasi popolo". Nella società del controllo, spazio e tempo hanno divorziato: come sentirsi figli di un territorio, se l'identità di quest'ultimo è ridotto a flusso di dati?

Oggi possiamo avere "proiezioni", "stime" o "predizioni", non più "idee" o "immagini" da rivivificare. Pensare a un altrove, quindi, non solo è impossibile, ma addirittura inutile e dannoso, soprattutto quando l'assuefazione all'instabilità e alla velocità lascia emergere la comune indifferenza verso tutto ciò che può essere visto. "Questa indifferenziazione nella lettura dei cliché – osserva Paquot (op. cit., p. 79) – si trasforma in indifferenza, in "una cosa vale l'altra" e reciprocamente. Fino al punto in cui il reale tende a sciogliersi in questa prospettiva". Abbiamo affermato, in precedenza, che tutto si riduce a questione di gusto, più che di giudizio. Eppure è altrettanto evidente che, di fronte al moltiplicarsi di possibilità di scelta parimenti allettanti, non possiamo fare a meno di tornare a interrogarci sulla "preferenza" (tornare, cioè, alla logica della differenza).

Se la pretesa di senso non è più esplicita, resta nondimeno una necessità vitale per chi continua ad abitare il logos. Potrà apparire senza cardinalità, senza direzione, ma nient'affatto superflua per quanti non abbiano altro strumento efficace di comunicazione al di là della parola (non a caso combattuta stolidamente a colpi di schwa, anziché per differenziazione sessuale, come denuncia Luce Iragaray nel suo saggio "Nascere"). Restituire il gusto dell'interrogazione è certamente un atto complesso e sfidante in una società narcisistica, nella quale il dubbio lede la maestà del capriccio, ma sono proprio le procedure di controllo a mostrare in che modo la trasparenza assoluta sia l'esito di un illuminismo ormai "fuori controllo". Viviamo agli antipodi di quel mondo duplicato, fatto di luci e ombre, che Platone aveva messo in scena nel mito della caverna: il mondo delle gerarchie del potere, dove la capacità di "vedere" dipendeva dalla sola forza delle catene. Là le ombre si muovevano in circolo e noi apparivamo il riflesso di una fonte luminosa situata altrove, nel mondo della metafisica.

"Nel mondo odierno, invece, non ci sono né apparenze né essere, non esistono ombre giacché l'essere è trasparente. Noi siamo perciò come attraversati in qualche modo dai messaggi, dall'informazione, dai megahertz o che so io, da tutto quel che si vuole, poiché noi stessi siamo trasparenti all'interno della realtà virtuale, non abbiamo più un'ombra. La nostra, se si vuole, è tipicamente l'epoca dell'uomo che ha perduto l'ombra. La famosa frase, 'egli ha smarrito la sua ombra', è una metafora che sta a indicare che abbiamo perso l'opacità, e in fondo l'essere stesso, lo spessore dell'essere, la sua profondità"

(Baudrillard, Il virtuale ha assorbito il reale, intervista dell'11 febbraio 1999)

La tesi di Baudrillard è condivisibile solo in parte. La trasparenza dell'essere è apparente, perché non è più dato un criterio certo per distinguere cosa sia essere e cosa apparenza. L'essere è l'apparenza stessa. Se il concetto di "negatività" come speculare negazione dell'essere in atto è venuto a mancare, non per questo l'essere è stato privato del suo costitutivo non-essere, o essere-altrimenti. Nel momento in cui diciamo hegelianamente che "qualcosa non passa", ma "è passato", il rassicurante schema triadico della dialettica - ove è sempre possibile parlare di positività distinte e per sé risolvibili - non funziona più. L'unico criterio di senso rimane forse l'analogia. Ma in quanto "ana/logia" (stando all'originario significato della preposizione greca), questa non può che replicare una continuità "opaca", la cui congiunzione è garantita per scarto: come l'occhio può credere di scorrere lungo il suo arco in perfetta continuità con ciò che vede, così al suo movimento spaziale va inevitabilmente riconosciuta la diffrazione temporale. L'infinita ripetibilità del movimento da A a B è sempre e comunque soggetta alla modificazione della durata. Anche nel caso in cui arrivassimo a sperimentare un modello di osservazione dove ciascun punto intenzioni il proprio corrispettivo (a,A;b,B;c,C), verrebbe in ogni caso a mancare la possibilità di com-prendere quel particolare oggetto temporale come risultante ABC. Non c'è via d'uscita dalla storicizzazione.

Qualcuno potrebbe obiettare che, in questi esempi, continui a essere presupposta una pluralità d'autonomie soggettive, in funzione della quale l'uno cerca di prendere nelle proprie maglie l'altro, senza tener conto del ruolo giocato dall'informazione nell'anticipare gli avvenimenti, nel metterli in scena e promuoverli. In un sistema di interdipendenze, non c'è tempo per controbattere, la domanda ha già in sé la risposta. Occorre solo assentire, o al massimo negare una scelta che è stata già compiuta per noi. La comunicazione appare in questi termini come una contro-utopia, come la realtà del reale, ma di un reale inespugnabile. Come toccare, dunque, l'anima dello spettatore, conducendolo a quella soglia del rimettere in causa che presiede la nascita dell'utopia?

Innanzitutto va rilevato che l'abbandono delle strutture e dei metodi coercitivi del potere spinge a esercitare il controllo basandosi sull'affinamento del consensus: metodo infallibile e democratico per regolamentare le contraddizioni sociali, economiche o culturali. Mezzo ideale per scongiurare il conflitto aperto. Abbiamo inoltre visto che qualsiasi idea di oggettività e naturalità dei concetti viene a costituirsi proprio in virtù della battaglia audiovisiva, soggetta a condizionamenti spazio-temporali. Né può giocare a favore l'uniformazione del campo esperienziale, tenuto conto che l'alea pervade addirittura gli effetti d'assonanza, generando combinazioni inaspettate e difficilmente prevedibili. Ne consegue che la realtà disegnata dal controllo, fatta di corrispondenze biunivoche così come di idee chiare e distinte, non è mai data, se non nelle simulazioni del virtuale. E per quanto Baudrillard abbia insistito ad affermare che il reale sia diventato il virtuale, il fatto stesso di continuare a parlare di questi due mondi, in modo così distinto, tradisce solo la consapevolezza che fra essi esista pur sempre uno scarto. Quello scarto in cui dimora l'autentica libertà del soggetto.

"La realtà è già scomparsa in un certo modo, ma perché essa in fin dei conti, non è mai altro che l'effetto di uno stimolo, di un modello. C'è un modello di realtà, un principio di realtà, che è stato costruito e che si può scomporre molto rapidamente. È una sorta di costruzione quella che si è sgretolata sotto la spinta delle tecnologie moderne, delle nuove tecnologie in particolare. Ciò che viene chiamata la realtà virtuale ha senza dubbio un carattere generale e in qualche modo ha assorbito, si è sostituita alla realtà nella misura in cui nella virtualità tutto è il risultato di un intervento, è oggetto di varie operazioni" 

(Baudrillard, Il virtuale ha assorbito il reale, intervista dell'11 febbraio 1999)

Tutto può essere realizzato, per Baudrillard, persino cose che in precedenza si opponevano l'una all'altra: da una parte il mondo reale, dall'altra l'irrealtà, l'immaginario, il sogno, eccetera. Nella dimensione virtuale tutto questo sembra poter essere assorbito in egual misura, iper-realizzato. A queste condizioni, però, la realtà in quanto tale perde ogni fondamento e davvero potremmo dire che non esistano più riferimenti al mondo reale. Tutto finisce per essere programmato o promosso dentro una superformula, un algoritmo, che è appunto quello del "virtuale", delle tecnologie digitali e di sintesi.

Altro accade, a ben guardare. L'unica possibilità di confronto "efficace" è garantita solo dal reale, perché il virtuale non può che "rappresentare" l'efficacia. Nel virtuale ci si immerge, ci si tuffa dentro lo schermo. Lo schermo, o in generale i paesaggi sensitivi, sono il luogo di immersione e ovviamente di interattività, poiché al loro interno è possibile fare quel che si vuole; in essi, tuttavia, manca la distanza dello sguardo, della contraddizione propria della realtà. Questa può essere sostituita solo dalla simulazione. Tutto ciò che esiste è differenziazione di un universo (differance, direbbe Derrida), mentre il virtuale è universo integrato. Certamente le care vecchie contraddizioni fra realtà e immaginazione, vero e falso, e via dicendo, vengono qui sublimate dentro uno spazio di iper-realtà che ingloba tutto, ivi compreso un qualcosa che sembrava essenziale come il rapporto fra soggetto e oggetto. Nella dimensione virtuale, oltretutto, non si danno più né soggetto né oggetto: entrambi, in via di principio, risultano elementi interattivi che svolgono o riavvolgono tutte le azioni possibili. Nella realtà virtuale qualsiasi cosa è effettivamente possibile. Vero. Verissimo. Ipervero.

Peccato che la visione dicotomica reale/virtuale resti frutto di una costruzione linguistica, attraverso la quale cerchiamo inconsapevolmente di appianare una battaglia audiovisiva di non-corrispondenze, di costante scacco spazio-temporale. Il punto, allora, è comprendere quale sia davvero il "luogo" in cui pensiero e linguaggio riescono a rendere persuasiva l'operazione sovrana. La penna di Baudrillard abbandona la danza per rendere leggibile l'agrammaticale e predicarne l'autentica natura, a costo infine di scivolare in ripetuti paradossi.

"Il luogo e il verbo essere - relazione combinatoria tra un sostantivo e un verbo, e gli impliciti – delimitazione spaziale nel luogo, esistere nel verbo – convertono la loro astrazione in struttura centrata, e ciò di cui si enuncia diviene reale. Rapporto decisamente singolare. Artificioso, data l'inconsistenza effimera di un "è", che lascia a intendere più di quanto l'affermazione, qualunque sia la versione, positiva o negativa, contenga e la presenza/assente di un "luogo" che circoscrive uno spazio vuoto"

(Franco Riccio, in Pensieri agrammaticali su tempo e spazio – oltre l'è, in M. Foucault, Spazi altri, op. cit., p.76)

Quando siamo assorbiti dalle suggestioni del linguaggio, le regole formali dell'operazione discorsiva tendono a sciogliersi da ogni relazione con la fattualità delle cose e degli eventi, assumendo un valore concreto. È solo nel "rapporto" che ogni discorso significativo, qualunque sia il campo di appartenenza (scientifico, sociale, storico, economico…) assume però un valore effettivamente concreto. Mai possiamo permetterci allora di perdere di vista la sua genealogia. Solo in questo modo lo "spazio" viene dischiuso prima di essere convertito in categoria o funzione.

"Le connessioni formali del discorso resterebbero tali e assumerebbero una semplice funzione classificatoria e di regole di osservazione di ciò che è dato, il "fuori", se nel discorso stesso non venisse a strutturarsi, come forza tendenzialmente costitutiva di ogni esperienza possibile, una relazione combinatoria tra l'affermazione dell'è, nella duplice valenza positiva e negativa, e lo "spazio vuoto"…"

(ibidem, p. 78)

È quindi la questione dello 'spazio vuoto' che viene a porsi come condizione per far circolare gli elementi del discorso e determinare le combinazioni delle parole: la relazione combinatoria risulta cerniera dell'essere e del non essere, distinguendo due modalità di pensiero. Quella dei pensieri che muovono e si sviluppano all'interno di regole stabilite (accreditabili sul piano della verità) e quelli che si muovono fuori dalle regole, attivati da input situazionali, che fungono da vettori di deterritorializzazione. Sono questi pensieri che interrogano interrogandosi su indicazioni, svincolati da impalcature teoriche e da operazioni sussuntive. Si rivolgono allo spazio comune su cui si profilano indicazioni di trasformazioni culturali e pratiche, lasciandole nella dispersione delle loro distanze di provenienza e di competenza specifica, senza fissarne "l'identità". Senza presunzione di neutralità.

L'archeologia dei concetti di spazio e tempo proposta da Foucault, nell'articolazione di una sintassi produttiva di un discorso ultimo della serie, lascia perciò emergere una loro "trasgressiva continuità" d'uso, inscritta nella desacralizzazione del sacro. Al di là della sintassi, è stato proprio Deleuze a dimostrare ne L'Anti-Edipo in che modo il desiderio alberghi nel cuore stesso del reale, libero da ogni mancanza e limite. Foucault ha sottratto a entrambe le nozioni le loro proprietà classiche: al tempo, quella di moto rettilineo, attraverso il quale passato, presente e futuro, venivano a tracciarsi nella medesima traiettoria; allo spazio quella di estensione uniforme, rispondente a un sistema in cui chiusura e apertura vengono a darsi attraverso una legalità interna che si stabilizza su ritmi regolari e che, nel sociale, si riproduce o attraverso una macchina ingegneristica, o mediante organismo. I due concetti si connettono nella "localizzazione dello spazio", originando spazi differenziati nell'unico spazio di cui siamo espressione (perché il tempo, associato al sistema fisico, viene a legarsi all'instabilità del moto, in forza del quale rende asimmetriche le sue fluttuazioni, spazializzandosi).

Controllo e trasgressione sono allora forze destinate a confliggere in una battaglia eterna, situate al di là dello spazio e del tempo, nel punto ove le possibilità si rovesciano su se stesse, generando l'incontrollabile rivolta di un corpo mai definitivamente localizzabile, ma non per questo rozzamente "neutro". Nello spettro delle scelte concesse o indotte, sarà sempre l'equivoco scarto di una "x" a tenere banco.

Alberto Caspani