2.3 Passare il limite

15.01.2023

Nella Scienza della Logica di Hegel viene messo in scena il processo che porta dall'Essere al Concetto, facendo leva sul potere dialettico del Limite. Eppure il momento della sua emersione palesa una presupposizione "trasgressiva" acutamente rilevata da Foucault e in grado di restituire priorità al corpo sulla ragione

(se non letto prima, si rimanda al post "2.2 L'auto-limite come ripiegamento strategico"

Per quanto una trasgressione osi, pare impossibile possa spingersi oltre il limite della sua finitudine. Tale condizione, infatti, rappresenta una barriera invalicabile per qualunque essere vivente. Il problema di fondo, tuttavia, sta nel fatto che continuiamo a ragionare attorno all'idea di limite secondo la logica dialettica ereditata da Hegel. Superare l'idea stessa di "Superamento" (Aufhebung), nel suo costante svilupparsi triadico (tesi, antitesi, sintesi),  condanna a risprofondare nelle maglie di quella ragione totalizzante che, al contrario, Foucault intende spezzare attraverso la trasgressione.

Nella "Scienza della Logica" (Georg W. Hegel, Editori Laterza, Bari 1999, tomo I), il "limite" emerge come momento della negazione dell' "altro", quest'ultimo inteso già di per sé come negazione del "qualcosa": il limite è cioè negazione di una negazione, dunque il polo affermativo di quel correlato "negativo" che lo vuole inscindibilmente legato alla trasgressione, in quanto sua ombra. Così traspare nell'analisi di Foucault, ma il filosofo di Stoccarda non ha mai detto nulla di simile.

Nell'ostico e temutissimo testo tedesco, non si parla affatto della trasgressione come momento dialettico dell'Essere in sviluppo verso il Concetto, poiché a essa non è riconosciuto alcuno statuto "logico", bensì "etico-morale". Ma è proprio il concetto di limite che viene a delinearsi nell'opera hegeliana, all'interno della sezione dedicata alla "Qualità", ad offrire un insospettabile grimaldello per scardinare il movimento totalizzante del pensiero in atto.

Per Hegel il limite (ibidem, op. cit., p. 125-128) è al tempo stesso negazione doppia (ciò che stringe assieme negando l'altro, che già in sé è negazione) e negazione semplice (ciò che "tiene solo lontano", come semplice separazione): il "qualcosa" può essere allora ciò che è, solo in virtù del limite (che è appunto la sua qualità); solo in virtù del suo "non essere", essendo il limite "la mediazione per cui tanto è quanto non è qualcosa ed altro".

Il qualcosa e l'altro trovano il loro esserci l'uno fuori dall'altro, dal momento che il limite, essendo il non-essere di ciascuno, è l'altro di tutt'e due. Il limite può infatti essere visualizzato come linea a partire dalla quale prendono forma due parti contrapposte dello spazio, definibili attraverso il movimento affermativo della sua proiezione in un senso, aprendo al contempo e di rimbalzo la visibilità del suo correlato nel senso opposto. Il qualcosa diviene allora il medesimo dell'altro, poiché entrambi hanno la stessa determinazione nel limite: il loro esserci viene a dipendere dal limite che, essendo il non-essere di ciascuno, è l'altro di tutt'e due.

Preso da questo punto di vista, parrebbe che il limite rappresenti il "fuori" o il "non-luogo" del Medesimo e dell'Altro, duplice definizione dello Stesso.

Eppure, nella costruzione della logica hegeliana, nulla può darsi che non sia riducibile alla dialettica dell'Essere-Concetto, tant'è vero che il limite scaturisce all'interno del movimento di doppia negazione dell'Altro e presiede, sia negativamente che positivamente, all'emersione del "dover essere" e del "finito". In quanto essenziale all'esserci, da una parte il limite diviene il suo termine: Hegel mostra come il qualcosa superi infatti se stesso nel momento in cui oltrepassa il proprio limite (ecco l'Aufhebung in atto!) e torna a riferirsi a sé come non essere. Dall'altra, però, il limite è anche principio o cominciamento di ciò che limita.

Ed è qui che si apre una falla nello svolgimento dell'Essere descritto da Hegel: il limite risulta già in atto nel momento in cui viene posta l'indifferenza originaria fra essere e nulla, in quanto assenza di differenza ("il puro essere e il puro nulla sono dunque lo stesso", op. cit. p.71). Il paradosso della partizione originaria della Scienza della Logica è che si vuol mostrare il movimento "in sé e per sé" dell'Essere verso il Concetto, dimenticandosi di riconoscere che se ciò è possibile, è solo perché un soggetto ne sta parlando da un punto di vista già acquisito, sapendo già quali siano le differenze e le identità del movimento dialettico da descrivere. Obietta infatti Foucault: "l'uomo non comincia con la libertà, ma con il limite e con la linea del non superabile" (M. Foucault, La follia, l'opera assente, in Scritti letterari, op.cit., p. 104).

Per quanto l'essere venga definito da Hegel "indeterminato immediato" (op. cit., 70), per poter affermare la sua "indeterminatezza" occorre sapere già, o quanto meno aver presente, cosa sia la determinatezza (è lo stesso Hegel a insegnare: se dico bianco, dico al contempo non-nero). E la determinatezza, in quanto finitudine, non può che partecipare già del limite.

A ben guardare, però, il rischio d'incorrere in una possibile presupposizione del pensiero in sé è paventata anche dal filosofo di Stoccarda, avendo scelto di fissare l'essere come punto di partenza "assoluto": "...questa cosa non è altro che quel vuoto essere. Perocché quel che sia la cosa, questo è, che deve manifestarsi solo nel corso della scienza, e che non può essere presupposto prima di essa come già noto" (ibidem, op. cit., p. 62).

Hegel prova a cautelarsi ancora nella nota I, ribadendo che "il nulla è da intendere nella sua indeterminata semplicità", perché in principio "non si tratta della forma dell'opposizione, cioè in pari tempo del riferimento; si tratta solo della negazione astratta, immediata, del nulla preso puramente per sé, della negazione irrelativa, - ciò che, volendo, si potrebbe esprimere per mezzo del semplice: Non" (ibidem, op. cit., p.71).

Al di là dei suoi scrupoli e delle sue malizie,  alla fine il filosofo di Stoccarda non può fare a meno di riconoscere l'imprescindibilità della prospettiva temporale, in quanto spazio di lettura del movimento dialettico: "il vero non è né l'essere né il nulla, ma che l'essere - non passa - ma è passato, nel nulla, e il nulla nell'essere".

Il movimento dell'essere non è infatti visibile per l'occhio metafisico occidentale, lo si riconosce solo dal suo "stacco", come accaduto di un accadente  (sulla definizione di stacco, si rimanda a Carlo Sini, L'origine del significato, Cuem, Milano 1999). Solo da questo momento è possibile tornare a parlare dell'essere come di "immediato indeterminato": è un'attribuzione che viene conferita in virtù di un movimento retroattivo "illuminato" per differenza, la quale, benché non originaria, è in realtà la nostra sola origine possibile. Quando poi Hegel avanza, precisando che "in pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi che essi non sono lo stesso, che essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche inseparati ed inseparabili, e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto"(ibidem, op. cit., p.70), indirettamente sta riconoscendo il lavorio sotterraneo del limite, il quale ha già posto quelle determinatezze che consentono di riconoscere le differenze. Perché "tutto ciò che noi oggi proviamo nella dimensione del limite, o dell'estraneità, o dell'insopportabile, [un giorno] avrà raggiunto la serenità del positivo. E ciò che attualmente designa per noi questo Esteriore, rischia ben presto di designare proprio noi"  (M. Foucault, La follia, l'opera assente, in Scritti Letterari, op.cit., p. 101).

È vero, Hegel osserva pure che tutto si stempera nella fluidificazione degli opposti - in omaggio all'immediatezza da cui ha preso le mosse - ma di fatto, nella discrasia cronologica evidenziata in queste prime righe della Logica, emerge un chiaro vizio di forma. Diciamo di forma e non di contenuto, suscitando probabilmente le ire postume della salma hegeliana, perché il dispiegamento dell'Essere descritto dal filosofo di Stoccarda resta comunque valido.

Il limite non è infatti un'entità astratta e sciolta dall'essere, ma si pone come trascendente-immanente al tempo stesso. Non contestiamo allora il suo momento di emersione nella dialettica, quanto la modalità della sua propugnazione. A far storcere il naso alla filosofia contemporanea è solo la pretesa di voler offrire una visione "assoluta" dell'Essere che si fa Concetto. D'altra parte, se il limite appare la soglia taciuta che innesca il movimento dialettico, consentendo di scandire le differenze a partire da se stesso, è altrettanto vero che esso non può darsi se non nell'essere stesso.

Come dire...dopo l'indice puntato dell'Antitesi, giunge la stretta di mano della Sintesi. Un nuovo colpo di coda dell'oscura, temutissima e "insuperabile" "Scienza della logica"? (continua 2.4)