2.4 Abissalità della trasgressione

16.01.2023

Liberando l'esistenza dal limite, l'uomo contemporaneo vive la vertigine di una possibilità che rischia di consegnarlo al vacuo della provenienza. Urge tornare a una logica discorsiva che sappia mostrare sia la finitudine del pensiero assolutizzante, sia l'eterna circolarità del significato  

(se non letto prima, si rimanda al post "2.3 Passare il limite")

Come rapportarsi alla trasgressione, una volta riconosciutala ombra del limite? Non è forse un'altra ed ennesima forma di 'alienazione', destinata a essere riassorbita nella processualittà del pensiero logico?

Rifacendosi alla semantica del verbo latino transgredi, da cui deriva la nostra "trasgressione", scopriamo innanzitutto che il termine in uso nella lingua corrente sembra aver già preso una certa distanza dalla sensibilità antica: al tempo dei Romani, trasgressione è violatio, un atto carico di valenze religiose. Nel verbo transgredi riconosciamo invece una duplice accezione: da una parte, evoca l' "attraversare", o ancora il "superare", restituendo un'idea di continuità, o meglio di un legame spazio-temporale fra il luogo di provenienza e quello di destinazione. Dall'altra, richiama un "oltrepassare" la misura e il tempo, un'azione che comporta frattura nel continuum del reale, tant'è che transgredi può essere usato anche nel senso di "passare sotto silenzio", "omettere", giungendo sino al significato più radicale: quello di "violare", "infrangere l'ordine". Un ordine, però, non propriamente religioso, bensì istituzionale.

È a questa seconda sfera semantica che Foucault volge l'attenzione, avviando un'opera di scavo nel linguaggio della tradizione epistemica che, pagina dopo pagina, spingerà la critica alla vecchia metafisica verso un irreparabile punto di rottura. Nelle parole del filosofo francese, "trasgressione" suona infatti condanna a morte della dialettica del pensiero totalizzante: "una profanazione in un mondo che non riconosce più senso positivo al sacro - non è più o meno ciò che potremmo chiamare trasgressione?" (Prefazione alla trasgressione, op. cit. p. 56). Il sacro desacralizzato altro non è, a suo avviso, se non la logica del Concetto, la Verità della Ragione, la cui desacralizzazione solleva con prepotenza la domanda circa lo statuto logico della trasgressione.

Grazie a tale rilettura siamo oggi in grado di tornare alla Scienza della Logica - alla dialettica dell'Essere che si fa Concetto - non tanto per coglierne la sacralità del contenuto, quanto la modalità di ricostruzione della sua vuota forma, del suo processo di sviluppo. Associando il movimento del pensiero che ripiega su se stesso all'annuncio nietzschiano della "Morte di Dio", cioè l'inizio della fine della metafisica, Foucault vuole mostrare una discontinuità radicale nel processo logico d'inveramento della Ragione.

"Ciò che già muore in noi (e la cui morte giustamente porta il nostro attuale linguaggio) è l'homo dialecticus - l'essere della dipartita, del ritorno e del tempo, l'animale che perde la sua verità e la ritrova illuminata, lo straniero a se stesso che ridiventa familiare. Quest'uomo fu il soggetto sovrano e il servo oggetto di tutti i discorsi che si sono fatti sull'uomo, da moltissimo tempo, e in particolare sull'uomo alienato. E per fortuna egli muore sotto le loro chiacchiere"

(M. Foucault, La pazzia, l'opera assente, in SL, op.cit., p. 103).

Precedentemente il filosofo francese aveva affermato che viviamo in un mondo "dove niente può più annunciare l'esteriorità dell'essere" (Prefazione alla tragressione, op. cit., p.57), in quanto ormai immersi totalmente in un'esperienza interiore e sovrana. Sottraendo alla nostra esperienza il limite dell'Illimitato, abbiamo prodotto un taglio non rimarginabile nella carne dell'Essere o - nel linguaggio della Scienza della Logica - del puro 'immediato indeterminato' del pensiero. Eppure, constata ancora Foucault, "una tale esperienza, nella quale esplode la morte di Dio, scopre, come suo segreto e sua luce, la sua propria finitudine, il regno illimitato del Limite, il vuoto di questa rottura dove essa viene meno ed è manchevole" (ib., op. cit., p. 57).

Assistiamo a un completo ribaltamento logico che non pone più nello svolgimento dialettico dell'Essere-Concetto la questione del Limite: questo, anziché essere un prodotto del puro pensiero che si pensa, può manifestarsi solo e antecedentemente nel limite d'affermazione del soggetto pensante (un limite, dunque, con la "l" minuscola, deassolutizzato). Lecito parlare allora dell'esperienza interiore come di un'esperienza dell'impossibile, di quell'evento a partire dal quale ogni dato oggettivo non è che un resto irrisolto dell'omologazione del pensiero. Il suo punto limite. Questa è la condizione per svelare l'evento in quanto segreto, mistero (o trasgressione, appunto): va colto nel significato del suo essere (già) accaduto, perché solo dal (già) dato è possibile pre-supporre un accadere in atto, solo dall'esteriore un 'già da sempre' fuori.

Forse è proprio la scoperta di questa abissalità dell'apertura dell'evento a sconvolgere e inebriare al tempo stesso l'uomo contemporaneo. Spalanca un mondo di possibilità libere da qualsiasi vincolo giustificativo, ma proprio per questo ancor più a rischio di sprofondare nell'oscurità del vacuo.

"Cosa vuol dire, infatti, la morte di Dio, se non una strana solidarietà tra la sua inesistenza che esplode e il gesto che lo uccide? Ma cosa vuol dire uccidere Dio se non esiste, uccidere Dio che non esiste?"

(ibidem, p. 57).

Ogni atto d'uccisione, dal parricidio di Platone contro Parmenide alla messa a morte della metafisica da parte di Nietzsche, comporta inevitabilmente un atto di hybris, di cosmica prevaricazione. Dio viene rimosso dal pensiero per liberare l'esistenza dal limite dell'Illimitato, da un'idea assoluta di normalizzazione della realtà, sebbene proprio la vita non cessi mai di mostrare all'uomo il limite della sua volontà di trascendere ogni limite. In questo inestricabile paradosso, e per quanto presi nel loro dinamico avvicendamento, trasgressione e limite continuano a riproporsi come contenuto operativo del pensiero. La trasgressione, infatti, si palesa come quell'evento non visibile che porta al riconoscimento del limite in quanto visibile; di riflesso, è sempre e solo nel limite che il significato si dà in quanto visibile, dunque dicibile.

Impossibile trascendere questa circolarità, che trasferisce l' "al di là" normativo della metafisica nel "tra" regolativo del reale. Limite e trasgressione devono l'uno all'altra la manifestazione del loro essere, ma non per questo si collocano in uno spazio assoluto e indefinibile rispetto alla dinamica dell'Essere-Concetto, della Ragione che si pensa nel Reale sino a farsi Spirito Assoluto. Pur non avendo luogo, in quanto utopia dell'Idea (cioé della Ragione di fronte alla propria immediata indeterminatezza, nel linguaggio hegeliano), limite e trasgressione sono riconoscibili nel movimento dell'Essere, hanno carne nel suo divenire già determinato: il limite, infatti, trae la propria esistenza nel gesto che indica e nell'atto negato; parimenti, la trasgressione può compiersi e dileguarsi solo nell'oltrepassamento del limite. L'enorme difficoltà di comprensione della Scienza della Logica hegeliana, riproposta nella corpo a corpo di Foucault, sta nel fatto che siamo costretti a parlare attraverso nomi, categorie, ipostasi, là dove si dà solo azione, processualità: meglio sarebbe dire, per ovviare ai dualismi della parola e della cosa, che la trasgressione è l'oltrepassare del limite, o il limite oltrepassantesi. La presunzione della logica assoluta hegeliana, per Foucault, abita nel linguaggio stesso attraverso cui viene messa in scena: nel far discendere il limite dall'Essere in quanto immediato indeterminato, benché solo in virtù del limite sia possibile porre e parlare di Essere e Nulla. Errore formale, più che materiale, perché comporta un'assolutizzazione del pensiero inaccettabile.

Solo attraverso il limite riconosciamo infatti la gettatezza del nostro Esser-ci, cioé del nostro esser già in situazione rispetto all'apertura del mondo; perché l'Esser-ci, in ultima istanza, può riconoscersi solo in quanto limite, finitudine, rischiarandosi nel momento in cui l'ombra della trasgressione (da cui emerge) è già dileguata. Quando il limite ha ormai permesso il riconoscimento di uno "stacco" fra il qui e il lì, fra il prima e il dopo. Voler ridurre la trasgressione a atto mediato del processo, a "superamento", è dunque un segno di profonda incompresione del ribaltamento teoretico promosso da Foucault: l'Aufhebung hegeliana non è che una modalità del dire un divenire ineffabile, del dire un accadere già sempre accaduto e dunque già "oltre", già "fuori" la dialettica del pensare. La trasgressione, di converso, si dà a vedere sempre nel riconoscimento postumo del limite, ma solo come effetto di uno "stacco", di una "interruzione" già avvenuta nel continuum del divenire.

Nietzsche avrebbe detto: "Ein Blitzbild aus dem ewingen Fluesse". La verità è quel tentacolo periscopico di groviglio prospettico che crede di vedere tutto fuori di sé, senza rendersi conto di esser semplicemente una parte di quello stesso tutto. Il divenire dell'inveramento, che in sé mai può vedersi o dirsi fuorché nelle ipostasi del linguaggio, è vita irriflessa. Con Hegel: "la verità dell'essere e del nulla è pertanto questo movimento consistente nell'immediato sparire dell'uno di essi nell'altro: il divenire" (Scienza della Logica, op. cit., p. 71).

Il divenire del Reale è oltre ogni possibile definizione e affermazione, dilegua nel momento stesso in cui viene "detto": in questo senso dobbiamo intendere l'impossibilità di cogliere la trasgressione di cui parla Foucault, di vedere la sua invisibilità. Trascende l'uomo, la finitudine, ma al tempo stesso ne dipende, quando emerge nell'inaggirabile paradosso del dicibile: "il divenire è...". Prima ancora di manifestare il predicato, il divenire è già stato perso e consegnato all'invisibilità. In quanto limite e trasgressione, il divenire non fa che aprire violentemente sull'illimitato, viene portato via dal contenuto che rigetta, ma viene anche completato da questa strana pienezza che lo invade fin dentro il cuore. 

"La trasgressione porta il limite fino al limite del suo essere; lo induce a svegliarsi davanti alla sua imminente scomparsa, a ritrovarsi in ciò che essa esclude (più esattamente forse a riconoscersi per la prima volta), a provare la sua verità positiva nel movimento della sua stessa perdita"

(Prefazione alla trasgressione, op. cit., p.59).

Che cosa resta, dunque, di questo dileguante dileguare? Come riconsegnarlo alla luce del linguaggio e del pensiero?

Se trasgressione è ciò che scavalca la puntualità dell'istante, che s'inabissa nell'adombramento digradante, che si manifesta nello spazio attraverso il "volo pindarico" del significato, la sua incessante operatività, forse, è ciò che chiamiamo "scrittura del tempo". (continua 2.5)