1.4 La norma, condizione del gioco e della trasgressione

04.01.2023

L'istituzione di una norma non si accompagna mai al riconoscimento di una verità assoluta, ma riproduce le dinamiche di un gioco strategico di azione e reazione. Solo la paura dell'aleatorio può trasformare la norma in un gioco fatale

(se non ancora letto, si rimanda al post "1.3 Come produrre un enunciato")

Con la morte della tartaruga di Gadji siamo di fronte a un gesto radicale, che rimette in discussione le posizioni acquisite persino dalla moderna sociologia e, al tempo stesso, mostra sostanziali affinità con una chiave di lettura ludica.

Come afferma Roger Caillois (I giochi e gli uomini, Tascabili Bompiani, Milano 1981/2000, p.83), "le strutture ludiche e le strutture funzionali sono spesso identiche, ma le rispettive attività cui esse presiedono sono irriducibili l'una all'altra e si esercitano, ad ogni modo, in campi fra loro incompatibili. [...] Ma il solo fatto che si possa riconoscere in un gioco un antico elemento importante del meccanismo sociale, rivela una straordinaria connivenza ed eccezionali possibilità di scambio fra i due campi". Sotto questo profilo, una rivoluzione appare un mutamento delle regole del gioco: e come non si può giocare senza regole, anche qualora si sia soli, così ogni forma di comunicazione risulta vuota senza un apparato normativo condiviso.

Foucault, pur non essendo stato uno dei primi a scorgere la fecondità di questa prospettiva, non ha avuto remore nell'assumerla e nel farla propria: anzi, nello scritto Verità e forme di giudizio (Power: Essential Works of Foucault, 1954-1984: Volume Three. Translated by Robert Hurley. The New Press), ne riconosce la validità, a patto di farla convergere con un metodo di ricerca storico e con studi sulla critica della soggettività. "In my view, what we should do is show the historical construction of a subject through a discourse understood as consisting of a set of strategies which are part of social practises".

Per il filosofo francese, infatti, è giunto il momento di considerare i "fatti del discorso" non più nella loro dimensione semplicemente linguistica, ma in quanto ("and here I'm taking my cue from studies done by Anglo-Americans") "giochi", "giochi strategici di azioni e reazioni", domanda e risposta, dominazione ed evasione, come se si trattasse di una lotta. "On one level, discourse is a regular set of linguistic facts, while on another level it is an ordered set of polemical and strategic facts. This analysis of discourse as a strategic and polemical game is, in my judgment, a second line of research to pursue" (ibidem). Foucault ha dunque congiunto gli spunti teoretici offerti dalla filosofia anglosassone alla tradizione continentale di stampo sociologico, dando vita a un metodo di ricerca alquanto originale e critico nei confronti di entrambe le correnti di pensiero. Un primo, fecondo passo verso la transdisciplinarità, in contrapposizione sia alla specializzazione disciplinare che all'assai meno coraggiosa interdisciplinarità.

Lo studio delle norme è stato posto sin dall'inizio al centro dell'attenzione da Émile Durkheim, che ne ha sottolineato l'imprescindibilità e l'importanza - con una connotazione fortemente positiva - per ogni tipo di società. Nonostante i limiti di certe sue posizioni che maturano in seno al pensiero positivista, e sebbene la sua immagine sia stata spesso appiattita da una lettura forse troppo frettolosa che la riduce entro un'antropologia ingenua e ormai superata, Durkheim è stato uno dei primi studiosi a riconoscere con forza il carattere relativistico delle norme e conseguentemente delle rispettive trasgressioni (E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Comunità ed., Milano 1979, p. 71); il trasgredire le norme è un fatto del tutto normale: ovunque esistano regole, norme, prescrizioni, inevitabilmente si verificano violazioni più o meno gravi e - sembra dire Durkheim, nonostante la sua preoccupazione nello scongiurare fenomeni di anomia - non necessariamente queste violazioni sono distruttive o negative.

Dal suo studio sul suicidio, così calzante per entrare nella mente della tartaruga di Gadji, traspare l'idea per cui anche i comportamenti devianti rientrerebbero, in qualche modo, nel circuito funzionale alla società. Attraverso l'analisi di statistiche sul tasso di suicidi in diversi Paesi europei, Durkheim rintraccia non solo un'attitudine al suicidio caratteristica per ogni società, ma anche una sua insospettata regolarità: in ciascun Paese, il tasso della mortalità suicida è pressoché costante - la sua invariabilità è addirittura maggiore di quella dei principali fenomeni demografici - e le sue oscillazioni variano in maniera inversamente proporzionale al grado di coesione sociale. Col crescere quindi dell'integrazione dell'individuo in seno al gruppo e dell'interiorizzazione delle sue norme, diminuisce anche il tasso di suicidi. Ora, nonostante il suicidio sia un atto illecito di insubordinazione e di rivolta nei riguardi della struttura sociale nel suo complesso, e nonostante esso sia - nella nostra società  (É. Durkheim, Il suicidio, cit. 266-292) - il segno di una crisi di questa struttura, se la sua percentuale non supera certi limiti, può perfino diventare un elemento di utilità: "ora, non v'è società conosciuta in cui, sotto varie forme, non si osservi una maggiore o minore criminalità. Non v'è popolo in cui non si violi quotidianamente la morale. Perciò dobbiamo dire che il delitto è necessario, che non può non esistere, che le condizioni fondamentali dell'organizzazione sociale, quali si conoscono, lo implicano logicamente, e quindi che è normale. (...) Ciò che è condizione indispensabile della vita non può non essere utile (...). Infatti, abbiamo dimostrato come il delitto possa servire, ma solamente se è condannato e represso. (...) Il suicidio è dunque un elemento della loro [delle epoche] normale costituzione ed anche, molto probabilmente, di ogni costituzione sociale" (Ib., cit., pp 428-429).

Pur essendo atti individuali, i suicidi dipendono interamente da fattori sociali, da 'correnti suicidogene' che portano il singolo a darsi la morte; questo fenomeno - sostiene Durkheim - si spiega soltanto sociologicamente, è estraneo a ogni psicologismo individuale. Si tratta di forze collettive che danno forma, solo successivamente, alle tendenze individuali: "le varie correnti di tristezza collettiva (...) non sono prive di ragione d'essere purché non siano eccessive. E' erroneo credere, infatti, che la gioia pura sia lo stato normale della sensibilità. (...) La malinconia è patologica soltanto quando prende troppo posto nella vita, ma è pure patologico che ne sia completamente esclusa. (...) è vero che normalmente la tristezza collettiva ha una funzione nella vita delle società" (Ib., cit., 432 e 436). 

Questo lato del pensiero di Durkheim si discosta, per molti aspetti, dai suoi assunti relativi alla necessità e desiderabilità di una normatività forte, che superi di gran lunga l'autonomia individuale, connotata in negativo da Durkheim come individualismo, egoismo o anti-socialità. La norma per Durkheim è qualcosa di necessario, di positivo e di morale - e qui siamo agli antipodi rispetto al pensiero foucaultiano, incarnato dall'astuta tartaruga. Nello scontro con il leopardo viene sospeso qualsiasi riferimento alla normatività del sociale o all'autonormatività del soggetto stesso, inaugurando invece una forma di scrittura scevra dai tradizionali dualismi metafisici. La domanda sollevata dall'atto di resistenza della tartaruga apre innanzitutto alla visione di uno spazio teoretico alternativo, o meglio di uno spazio-altro, di un luogo eterotopico a partire dal quale sarà possibile "enunciare" una verità ulteriore.

Di fronte all'enigma di una traccia che sospende ogni "detto", fino a che punto il vero non verrà infatti contaminato dal leggendario? Quale sarà mai il limite che separa la luce dell'evidenza dalle tenebre del silenzio? In che modo si dovrà calare il sipario sull'accaduto, affinché possa irrompere la scena successiva, spingendosi oltre il non-dicibile? Cosa comporta il black-out visivo alla verità del discorso?

In assenza di margini oggettivi, occorre far ricorso a un metodo seriale, di allineamento di tracce sconclusionate. "Solo un metodo seriale permette di costituire una serie nelle vicinanze di un punto singolare e di celare altre serie che la prolunghino in altre direzioni" (G. Deleuze, op. cit., p. 89). Il punto del taglio non potrà che emergere dal luogo di divergenza, secondo l'innovativa epistemologia di Foucault: ordinare per catalogare, catalogare per vedere.

La verità si costruisce ordinando.

La garanzia della verità viene così riposta nella possibilità di una visione continua, senza interruzioni, per quanto analitica. L'oscurità del disparato cela pensieri pericolosi, generando superstizioni e false credenze. Non si scherza, né si gioca con la verità. Se da una parte l'associazione controllo-gioco è utile per comprendere quale sia la struttura dell'enunciato, dall'altra il controllo va tenuto distinto dal gioco proprio per la non accettazione dell'aleatorio, di cui il secondo resta pur sempre pervaso. Cosa che fa della vita, in quanto processo in apparenza verificabile, una "faccenda terribilmente seria", come avrebbe detto Nietzsche. Un gioco sì, ma di natura diversa:  un gioco fatale dove non ci si può concedere errori, perché sempre ne va di noi stessi e della nostra verità in quanto uomini razionali (opposti - per rispecchiamento iperbolico - al bambino irrazionale, a un bambino che si diverte lanciando i dadi).

Già Eraclito aveva scritto: "Αιον παισ εστι παιζον, πεσσευον. Παιδοσ η βασιλειη" ("La vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera: reggimento di un fanciullo"). L'aion che qui viene tradotto con "vita" (secondo Giorgio Colli) non indica solo la vita umana, ma la vita dell'essere in generale. La forza formatrice del mondo del bambino opera tramite le nostre percezioni e le nostre prospettive, ma non solo; questa disposizione creativa descrive anche il gioco interpretativo dell'esistenza

Lo scopo del gioco (che si riduce infine a gioco di forza) è infatti il gioco stesso, prendendo corpo unicamente grazie alla forza e all'intensità del suo stesso atto. (continua 1.5)