Per una fenomenologia dello smarrimento

23.04.2022

Dalla tecnologia del rischio alla multidirezionalità dell'io

a cura di Alberto Caspani

Possibile antidoto a una transizione senza attrito è la restanza, "il sentimento di chi àncora il suo corpo a un luogo e fa diaspora con la mente" (Vito Teti, "La restanza", Giulio Einaudi Editore 2022, p.5). Stato d'animo complesso, contraddittorio nel suo stesso definirsi "stato", perché scaturisce dalla messa in tensione di soggetto e territorio, evidenziandone non tanto l'interdipendenza, quanto la polarizzazione di un andar qua e là, non in grado di esaurirsi nelle ipostasie della migrazione.

Entrata nell'uso corrente del linguaggio grazie al documentario dedicatole dalla regista Alessandra Coppola ("La restanza", 2021), la restanza è nostalgia che trasmuta nel rapporto di amore e odio col proprio spazio-vita, dove ataviche criticità possono dischiudere sia vie di fuga, sia di rigenerazione.

"I paesi si spostano, si dimezzano, si sdoppiano. A volte questi abitati muoiono e rinascono in terre lontane con estensioni speculari del luogo-madre, così nelle Americhe nascono i paesi doppi, i sosia dei paesi d'origine. Questa narrazione ricurva del tempo ritrovato è il corrispettivo di un io plurimo, destituito di senso ed eresiarca di ogni archetipo: l'emigrante lascia nel luogo della sua casa una parte del suo io, la sua ombra. Il paese lasciato diventa per l'emigrante un'ombra perduta e lui stesso si reduplica per essere, diventa un doppio, il riflesso di un corpo transumanato per le persone rimaste"  (V. Teti, ibidem, p. 12)

La restanza ha dunque a che fare con la condizione di possibilità del soggetto, ma anche del territorio abitato: non li contrappone come entità precostituite, ma li correla in quanto perturbatori e perturbati del costante fluire della vita. Decostruisce, senza però togliere il terreno sotto i piedi, preservando i semi di un altro e possibile avvenire. Fra le tante declinazioni individuate da Teti, una in particolare mostra meglio delle altre il potere destabilizzante della restanza: "si resta anche in luoghi dichiarati pericolanti, contro il parere dell'autorità; si afferma talvolta una sorta di cultura della precarietà, della vita costantemente aperta al rischio" (V. Teti, ibidem, p.19). Nulla di più scandaloso per chi si conforma alla società del controllo e al capitalismo della sorveglianza (cfr. Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press 2019), a causa del quale le migrazioni sono diventate flussi rigidamente orientati e unidirezionali nello spazio cartesiano del mercato.

Il rischio calcolato
L'abitudine a misurare, calcolare e prevedere ogni possibile rischio, ha infatti instillato nell'uomo contemporaneo qualcosa di sottilmente diverso dal "vizio" dell'avventuriero, "la caratteristica audacia con cui questi lascia che la solidità della vita si sostenga, per così dire, giustificandosi da sé, forte di un sentimento di sicurezza e di quel "deve funzionare" normalmente proprio della trasparenza degli eventi calcolabili". (Georg Simmel, The adventurer, 1911, §15). L'avventuriero è un individuo astorico, completamente assorbito dal presente, esattamente come il giocatore d'azzardo, a sua volta trasportato in una dimensione che ha tutte le caratteristiche del sogno estraneo alla quotidianità: per entrambi gli eventi scorrono senza sedimentare, sono brevi avventure indipendenti da quanto precede e quanto segue, fuori da ogni possibile economia, ma contententi già di per sé quella fatidica "inevitabilità" cui ci si abbandona (anziché sforzarsi di comprenderne il funzionamento e metterlo alla prova). Solo il riconoscimento di questa dimensione "aleatoria-provvidenziale" della vita offre però terreno fertile per plasmare libere immagini di desiderio, sottraendole ai limiti intrenseci di ogni metodo, alla mortificazione di quel che Hans Jonas ha definito il "principio di responsabilità", in contrapposizione al "principio speranza" di Ernst Bloch. Se il primo, in fondo, non è altro che un eufemismo dell'angoscia heideggeriana dell'esser-per-la-morte, limite intrascendibile della vita destinato a restringere l'orizzonte del singolo sino a bloccarlo nelle sue effettive possibilità,  solo la speranza ha il potere di rinviare a qualcosa che sta sempre davanti a ciascuno di noi, per quanto non percepito ancora chiaramente. Giusto un presentimento. Un'anticipazione delle opportunità di vita migliore, che mai coinciderà con uno stato di fatto, né tanto meno con un immaginario realizzato. "Lo sperare, superiore all'aver paura, non è né passivo come questo sentimento, né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L'affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all'esterno può essere loro alleato" (Ernst Bloch, Il Principio Speranza, Garzanti 2005, ibidem, p. 5).

A imporsi nella vita quotidiana d'oggi, tanto nelle strategie delle borse internazionali quanto in quelle della spesa quotidiana, è invece il risk management. La lampadina resta spenta; sarà un'interruzione di corrente. Il termosifone è freddo; forse un guasto alle condutture del gas. Il telefonino non ha campo; staranno lavorando sulle torri delle antenne. Una sequenza di giustificazioni razionali, basate su possibili rapporti causa-effetto, viene immediatamente dispiegata per non lasciarsi vincere dal panico dell'imprevisto e dall'angoscia esistenziale. E' solo questione di tempo, in tempo di pace. La normalità sarà ripristinata perché può essere ripristinata, nello spazio della pace.

Il passaggio dalla geometria del caso - probabilistica, soggettiva, individualistica - alla tecnologia del rischio - pubblica, oggettiva, spersonalizzata - è segnata dalla nascita e dallo sviluppo della statistica
Simona Morini, "Il rischio", Bollati Boringhieri 2014, p. 82
L'imprevisto, che attraverso il potere utopico e generativo del sogno fa dell'uomo di Bloch un eterno migrante "a-occhi-aperti" verso il Contintente Speranza, nella società liquida della transizione diventa una possibilità su mille. Se così non fosse, il rischio mal calcolato finirebbe infatti per deviare la spinta in avanti, costringendo la vita a girare su se stessa. "L'anelito serba intatta tutta la sua forza, proprio se è ingannato e gira a vuoto ora in questa, ora in quest'altra direzione. A maggior ragione, se la strada è quella giusta e procede, cautamente, in avanti" (Ernst Bloch, ibidem, § 33. "Chi sogna vuole sempre di più", p. 517). Condizione che, nella sua paradossalità, viene alimentata proprio dalla restanza, il cui attrito può essere rimosso solo indicando dall'esterno la retta via. Opponendosi al lavorio della coscienza anticipatrice, la cui soglia d'attenzione deve ancora fare i conti con il vago dell'esistenza, la strada viene predisposta come garanzia del giusto e del vero in quanto materializzazione del metodo. Non occorre "procedere cautamente", passo dopo passo, proprio perché la direzione è già tracciata da chi conosce e dice i segni di un percorso pubblico e universale. La strada ha una fine ma anche un fine, che il vago non può ancora avvallare e su cui si riserva il diritto di sognare il meglio. "...il sogno non si manifesta solo mentre si dorme: compare anche nella veglia macchiandola, perforandola. (...) Nella veglia lo stato del sognare avviene in modo impercettibile per il soggetto e contribuisce, almeno, all'oblio, oppure a generare un ricordo il cui contenuto si trasferisce o si travasa a un piano della coscienza che non gli corrisponde. Diventa, così, seme di ossessione e di sconvolgimento della realtà, perfino di calunnia. Al contrario, se questi contenuti di trasferiscono in un luogo della coscienza adeguato, il luogo in cui la coscienza e l'anima entrano in simbiosi, vengono a essere semi di creazione, sia nel processo della vita personale, sia, allontanandosi da questa, in un'opera d'arte" (Maria Zambrano, "Il sogno creatore", Mondadori 2002, pp. 53-54).

Sognare, dunque, è già di per sé - e paradossalmente - uno svegliarsi dal flusso della vita che trascina e predetermina le risposte di adattamento dell'uomo. Durante la veglia  prevale infatti una prospettiva ordinata nella quale l'attenzione ammette ed esclude ciò che solo è possibile in funzione del limite: restiamo immersi nella passività della continua attività. Apparentemente abbiamo la sensazione di cambiare e trasformare la realtà di cui siamo parte, ma se "le cose funzionano" non stiamo facendo altro che riprodurre ciò che della vita vediamo. 


Manipolazione del visibile

"In una cultura in cui il futuro era ritenuto predeterminato da Dio, o comunque indipendente dal volere umano, vi potevano essere 'pericoli', 'fatalità', 'caso', 'avventure': 'azzardi', appunto, come venivano chiamati. Ma la parola 'rischio' non veniva mai usata (come il termine 'probabilità', d'altronde) e non aveva alcun significato teorico. Perché il rischio diventi oggetto di pensiero - e quindi un oggetto di conoscenza - bisogna ritenere che il futuro possa essere cambiato, o che almeno ci si illuda che possa essere cambiato, dall'azione umana. Il rischio comporta che gli individui non si accontentino di speranze, ma formulino delle aspettative. Si deve cioè passare dalla religione alla scienza" (Simona Morini, "Il rischio", Bollati Boringhieri 2014, pp.21-22)

Il problema di fondo è che il rischio riduce il caso o la fatalità a mero attrito, facendone dapprima questione di oltrepassamento di un limite, quindi di sua completa rimozione. Ma il limite non lascia vedere solo l'al di là, ma cela anche l'al di qua e, soprattutto, disegna sempre una soglia mobile. Senza questa consapevolezza, ci riduciamo a vedere solo ciò che vogliamo vedere, analogamente a quel migrante che "non sogna più a occhi aperti" il Continente Speranza, ma adatta il suo errare a frontiere e modelli di Stato idealizzati.

E' forse questo il vizio più atavico dell'Europa e dei suoi figli negletti. Già ai tempi di Platone compare la figura di un demiurgo che tiene fisso lo sguardo su quello che è sempre nello stesso modo, col fine di operare il Bene. Aristotele, invece, trasferirà la "norma" dell'idea platonica, la sua misura di riferimento, nel "giusto mezzo" immanente alle cose e dipendente dalle situazioni. Un cammino plurisecolare che, pur nelle sue apparenti varianti, sfocia nella grande impresa riduzionistica della scienza, passando niente meno che dalle forche caudine della guerra: l'estremo tentativo di piegare l'inaffidabilità della vita alla morsa della teoria, facendo eventualmente leva sul "talento" dello stratega per ovviare alle rigidità del modello d'esecuzione. Così sentenziava il veneratissimo prussiano Carl von Clausewitz ("Della guerra", Bur 2009). Inteso nella sua più ampia accezione di "probabilità che si verifichi un evento indesiderato", il rischio finisce per essere considerato niente più che una variabile soggetta a manipolazione, avendo perso l'alea da cui originalmente appariva circonfuso e puntando alla deliberata rimozione di ogni attrito.

"La domanda da porsi sarà allora se quanto ha avuto una così buona riuscita dal punto di vista della tecnica, rendendoci padroni della natura, valga ugualmente per la gestione delle situazioni e dei rapporti umani. In altri termini, riprendendo la distinzione stabilita dai Greci: questa efficacia del modello che constatiamo a livello di produzione (poiesis) può valere anche nel campo dell'azione, quello della praxis - nell'ordine, come dice Aristotele, non più di ciò che si «fabbrica», ma di ciò che si «compie»?"

François Jullien, Trattato dell'efficacia, Einaudi 1998, p. 6.

Cartografie abissali

Ritrovarsi nelle dinamiche di guerra, o di un'economia di guerra, non è affatto un deragliamento o un fallimento del percorso evolutivo della società, se questa stessa necessita di modelli sempre più rigidi e definiti per far fronte all'alea della vita. Chi si dà un'agenda per governare la transizione dei processi, infatti, si pone inevitabilmene nella praxis del rischio, creando le condizioni per l'irrompere periodico di "stati d'emergenza" che possono essere superati appellandosi solo al mito trasformativo della creatività: niente più che un jolly di convenienza, grazie a quelle virtù enigmistico-combinatorie di cui ben parla Stefano Bartegazzi ne L'elmo di Don Chisciotte (Laterza, 2009) e delle quali la retorica della crisi fa uso selettivo, avversandone invece l'originaria virtù poietica.

Nell'indagare il rapporto fra creatività e maternità in "Partorire con il corpo e con la mente" (Bollati Boringhieri, 2010) - rapporto accortamente epurato di ogni riferimento fisiologico-empirico nella tradizione di pensiero "al maschile" - Francesca Rigotti individua però tre condizioni essenziali per riconoscere un atto propriamente creativo: il suo essere "originale" perché aderente alle origini; il suo essere "autentico" in quanto non copia, né riproduzione, né imitazione; il suo essere "nuovo" perché fuori dal comune, insolito e forse anche stravagante. Luogo privilegiato per cogliere la creatività in atto, al di là della generazione di una nuova vita (praxis), è ripercorrere la storia delle metafore del linguaggio (poiesis), attraverso le quali sono create somiglianze e connessioni che vengono percepite come naturali, benché mai prese in considerazione (e dunque inesistenti) sino al momento della loro espressione. E' soprattutto la polisemia - ovvero la presenza di più significati in uno stesso termine - a mostrare di possedere quel carattere di feconda mobilità utile all'infinita invenzione, a seconda della sensibilità del contesto. Ma ad essa concorrono pure la tensione e l'oscillazione dei significati opposti che alimentano il gioco delle somiglianze: in sostanza, un processo di movimento continuo avanti e indietro, su e giù.

"Il circolo della creatività, potremmo chiamarlo, che non si realizza nel vuoto dell'autoidentità, ma che richiede almeno due partecipanti, come nella scena della nascita, per giocare nell'ambito della polisemia compiendo salti audaci e insubordinati, irrispettosi delle gerarchie, dall'uno all'altro livello di senso"
Francesca Rigotti, "Partorire con il corpo e con la mente", Bollati Boringhieri 2010, pp. 151-152

Un processo che è l'esatto opposto della combinatoria che plasma la scrittura teorica, nella quale scompare ogni forma di empiricità a favore del mero calcolo probabilistico: non è un caso che i principali inventori di linguaggi artificiali, da Leibniz a Zamenhof o Frege, si siano sempre riproposti di abolire la polisemia a favore della biunivocità. Rifuggendo dai paradossi del cosiddetto "pensiero gianusiano" (capace cioé di concepire e utilizzare simultaneamente due o più idee, concetti o immagini, opposti e contradittori), la scrittura teorica si sviluppa infatti per processi a "basso rischio" ricorrendo a "significati dati, fissi, vicini, senza osare convogliare ogni significato addizionale. Processi ad alto rischio introducono invece significati originali, inattesi, lontani, individuando nuovi problemi da risolvere" (ibidem, p. 154).

Senza il superamento della soglia di rischio, ogni crisi di sviluppo resta chiusa nella segmentizzazione dei propri eventi-limite e prigioniera di un mito trasformativo che può concedere solo opzioni di scelta derivative. L'elogio e l'esaltazione del creativo al potere (o dello stratega di Clausewitz) suona allora tanto astuto quanto subdolo: il suo scopo è sorprendere l'uomo in scacco e disorientato con soluzioni ad effetto, con risposte combinatorie ad hoc, dal momento che le regole del gioco non possono (né devono) essere mantenute in tensione. La modellizzazione dello sviluppo lineare non ammette ramificazioni sovversive, ma solo momentanee deviazioni ("nessun futuro senza crescita e profitto!").

"..il capitalismo, il colonialismo e il patriarcato si combinano per generare specifici gruppi di dominazione. La sociologia delle assenze è la cartografia della linea abissale. Essa identifica i modi e i mezzi attraverso i quali quest'ultima genera non-esistenza, invisibilità radicale e irrilevanza. Il colonialismo storico è stato il tavolo da disegno principale della linea abissale, dove le esclusioni non abissali (quelle che si verificano sul lato metropolitano della linea) sono state rese visibili, mentre quelle abissali (quelle che si verificano sul lato coloniale della linea) sono state celate. Oggi la sociologia delle assenze è l'indagine sui modi in cui il colonialismo, sotto forma di colonialismo del potere, della conoscenza e dell'essere, opera insieme al capitalismo e al patriarcato per produrre esclusioni abissali, ossia per fa sì che certi gruppi di persone e certe forme di vita sociale risultino inesistenti, invisibili, radicalmente inferiori o radicalmente pericolosi - in sintesi, dispensabili e minacciosi"

Boaventura De Sousa Santos, "La fine dell'impero cognitivo", Castelvecchi 2021, p.5

Sono almeno cinque i campi d'indagine privilegiati dalla sociologia delle assenze di De Sousa Santos, grazie ai quali cogliere questa sottile capacità di "produrre differenza": la conoscenza "valida" (o scientifica tout court), il tempo lineare, la classificazione sociale, la superiorità dell'universale e del globale, ma anche e soprattutto la produttività. Uno sguardo alle inquietudini del quotidiano è di per sé rivelatorio del lavoro di scavo finalizzato ad abbattere la soglia massima del rischio.

La riscrittura della norma

Benzina troppo cara? Andare in bicicletta è più trendy, se a cavallo di un'elettrica ancor più. Il grano scarseggia? Meglio mangiare soia (ogm) vegana o carne sintetizzata, amiche dell'ambiente. Ciò che conta è orientare le abitudini di ieri verso una rinnovata normalità eticamente superiore alla precedente, occultando al contempo l'inevitabile sottrazione. Il negativo di contrappeso alla nuova tesi. Se la strategia suasoria non dovesse funzionare, sarà lo stato d'emergenza a (auto)giustificare il ricorso alla disciplina, evolvendo in economia di guerra per intensificare il potere coercitivo. A riguardo, quanto scritto da Gustave Le Bon nella Psicologia delle folle (1895) appare una costante storica.

"i popoli, vittime dell'illusione secondo cui moltiplicando le leggi si possano meglio assicurare l'eguaglianza e la libertà, accettano, in virtù di quelle, giorno dopo giorno, i legami più gravosi. E non li accolgono impunemente. Avvezzi a sopportare tutti i gioghi, finiscono con il cercarli, perdendo ogni spinta propulsiva"

Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, Edizioni Clandestine 2013, p. 155

Nel processo di riscrittura della norma, proprio di ogni transizione che vive di eventi di rottura, nessuna identità può mantenersi aperta: il creativo stesso, nella sua deformazione professionale, risulta costantemente a rischio di deriva verso il ribelle, il populista, o peggio ancora, il paria, qualora palesi la possibilità di uno sviluppo non indirizzato. Esiste sempre una casella, o una terra di margine, entro cui la cartografia delle linee abissali è pronta a collocare l'anomalia e attraverso cui consente di recuperarla mediante l'alternativo, affinché di nuovo produca tendenza, riconnettendosi alla rete del capitale-mondo.

"L'insorgenza di nuove geografie dettate dall'eterogenea spazialità dei flussi d'interconnessione transnazionale e delle loro ricadute spaziali è tanto rilevante da produrre inediti paesaggi socio-economici o antropologici, e con essi nuove linee globali di sconnessione e conflitto. (...) L'utile mappa concettuale di Arjun Appadurai si incentra, come si sa, sull'analisi di cinque paesaggi (ethnoscapes, technoscapes, mediascapes, finanscapes e ideoscapes). Ma non dedica alcuna attenzione a quelli che, nel suo stesso lessico, potremmo chiamare warscapes (o anche nomoscapes, pensando alla sfera del diritto internazionale). Se invece crediamo importante ragionare sulle forme spaziali in cui si è evoluto il 'paesaggio bellico' contemporaneo, ciò è perché la guerra è sempre stata un laboratorio paradigmatico per la sperimentazione di assemblaggi sociospaziali innovativi e, per certi versi, rivelativi del tempo storico"

Matteo Vegetti, "L'invenzione del globo", Einaudi 2017, p.159

Eccesso di tecnologia
Gps, piattaforme digitali o social networks sono tutte tecnologie di origine e finalità bellico-militare, che servono proprio a questo: posizionano, identificano, suggeriscono dove andare, cosa evitare e quale sia la via d'incasellamento più conveniente o gratificante, prescindendo dalla capacità di rielaborazione individuale. In breve, danno ordini e istituiscono ordine. E' vero. Talvolta possono commettere errori per mancanza d'informazioni o parzialità statistica, talaltre sono soggette a interferenze la cui intensità comporta addirittura disconnessione dalla norma (le elezioni presidenziali di Donal Trump, negli Usa, sono un esempio emblematico), scatenando il panico del migrante pavloviano. Anche la più sgualcita cartina da passeggio torna allora utile e il viandante snobbato sino a pochi secondi prima assume le sembianze di un Cristo Salvatore, benché pericolosamente inaffidabile. Restar per strada si conferma infatti icona dell'eterno errare. Servono nuovi dati, servono cardinalità più precise. Subito, per dio! Qui fa buio. Il vento si sta raffreddando. I negozi saranno lì lì per chiudere. Occorre tornare il prima possibile sulla retta via del metodo, perché gli agguati della vita sono dietro l'angolo. Al deficit di tecnologia o informazioni, però, il capitalismo della sorveglianza risponde sempre e solo con ulteriori prodotti della techne, affinché il rischio di perdersi (o forse di scomparire all'occhio della società del controllo) sia definitivamente scongiurato. Con esiti non di rado ancor più disastrosi: l'inseguimento di chimere, la riaffermazione dei propri errori.

Il potere del frivolo

Le persone non esplorano il mondo, ma l'idea che se ne sono fatti. Per prima cosa si creano nella testa un modello della destinazione del viaggio basandosi su informazioni che altri hanno raccolto prima di loro. Poi allineano il modello con la realtà""

K. Passig - A. Scholz, "Perdersi m'è dolce...", Feltrinelli 2010, pp. 23-24

I reticolati di lettura del mondo appaiono immancabilmente eterogenerati, sebbene diano l'illusione di padroneggiare l'orientamento dello sguardo e della direzione di marcia. Sono rappresentazioni tanto selettive quanto pericolose, perché hanno la pretesa di comunicare l'essenziale della norma, trascurando l'effetto dirompente del frivolo. Spiega Derrida: "La frivolezza nasce dallo scarto del significante, ma anche dal suo ripiegarsi su se stesso, nella sua identità chiusa e non rappresentativa. Non si sfugge, pertanto, alla frivolezza se non correndo il rischio semantico della non-identità" (Jacques Derrida, L'archeologia del frivolo, Edizioni Dedalo 1992, p.114).

Il sottrarsi alla percezione e alla rappresentazione lascia emergere un quid generativo, che può dispiegare tutto il potere dello scarto, sia sul piano fisico del territorio-paesaggio che della lingua attraverso cui l'io-soggetto si configura e produce significato. Al contrario, maggiore è il radicamento dei sensi (la fissazione demiurgica dello sguardo), col carico di abitudini che questi comportano, maggiore è l'incapacità di operare e pensare altrimenti, limitandosi a replicare il consolidato schema di lettura delle somiglianze e delle differenze.

"La differenza segna una distinzione, mentre lo scarto apre una distanza. Perciò la differenza è classificatrice (operando per somiglianza e differenza) e identificante: secondo Aristotele è procedendo "di differenza in differenza", fino alla differenza ultima, che si giunge all'essenza (definizione) della cosa. Viceversa, lo scarto non è una figura identificante, ma esplorativa, direi euristica: la questione allora non è più 'che cos'è' la cosa nella sua singolarità, per differenza/e, ma 'fino a dove' si spinge lo scarto, eccedendo da quanto è stabilito"

François Jullien, "Essere o vivere", Feltrinelli 2016, p. 261

La realtà è sempre più di ciò che l'uomo può percepirne. Le parole che la plasmano sono sempre in debito di un quid. Questa consapevolezza dovrebbe accompagnare l'uso di qualunque prodotto della techne, incluso il linguaggio di genere. Al di là del fatto che sia sottomano o configurata a livello mentale, ogni mappa può infatti trasformare le indicazioni di orientamento nelle cause stesse dello smarrimento. Implica di dover seguire qualcuno (per quanto non visibile, la mappa rappresentata dalla persona che guida in una città sconosciuta rivela la sua illeggibilità non appena questi scompaia); fissa a discrezione punti di riferimento ricorrenti ("all'incrocio grande girare a destra", salvo rendersi conto che quasi tutti gli incroci che attraversiamo sono piuttosto grandi) o variabili (la cima di una montagna che svanisce sotto le nuvole basse); tralascia le deviazioni (cerchiamo spasmodicamente un cartello rosso e non vediamo che è posizionato appena all'angolo con un vicolo). La mappa dà sempre voce all'altro, non semplicemente come essere umano, ma in quanto dispositivo.

"Il dispositivo ha una natura strategica. Già il termine implica una spazialità e una forza, un'idea di spazio strategico all'interno del quale si esercitano una serie di forze convergenti in un obiettivo. Questa immagine è presente nel termine latino dispositio, da cui deriva il nostro dispositivo, termine che nel suffisso dis- (in modo analogo al suffisso greco dia-, che rinvia a un'origine indoeuropea per entrambi i casi) implica un'azione e una forza convergente delle forze spazialmente collocate. Per questo la dis-posizione delle truppe in campo, già negli antichi trattati di arte della guerra, implicava una sistemazione articolata delle unità su uno spazio e il loro successivo impiego concentrico, contro il nemico (oggetto) e per la vittoria (scopo)"

Alessandro Baccarin - Paolo Vernaglione Berardi, "Che cos'è un dispositivo", Quaderno IX

La mappa come dispositivo
Impossibile non essere manipolati dalla mappa nel manipolare i suoi significati. Sfuggire a quella sottile "alchimia simbiotica" di cui ha parlato anche Denis Cosgrove in "Mapping the world" (2007). Comunque la si utilizzi o la si figuri, genera rappresentazioni in deficit di realtà, obbligando a modellare attraverso forme di riduzionismo geometrico e matematico. Sono dispositivi pensanti che astraggono, immaginano, proiettano, deformano. Una delle loro maggiori virtù, ma anche delle più pericolose cecità prodotte, consiste nel posizionare contemporaneamente l'osservatore fuori e dentro il piano d'osservazione. Non a caso il grande cartografo Ortelius usò per il primo atlante l'espressione "teatro del mondo", dal momento che la geografia - in epoca rinascimentale - era intesa ancora come "occhio della storia". Oggi la dimensione temporale entra invece in gioco nella lettura della realtà come puro atto di presentificazione: basti pensare all'uso del time lapse, che crea l'illusione di visualizzare per fasi e ricombinare la vita in transizione. 

"Una mappa manipola sempre la realtà che cerca di mostrare. Essa opera per analogia: su una mappa una strada è rappresentata da un simbolo particolare che ha ben poche somiglianze con la strada stessa, ma coloro che guardano la mappa accettano il fatto che il simbolo sia come una strada. Invece di imitare il mondo, le mappe elaborano segni convenzionali che finiamo per accettare come sostituti di ciò che essi non potranno mai riprodurre fedelmente"

Jerry Bottom, "La storia del mondo in dodici mappe", Feltrinelli 2013, p. 26

Non uno, ma addirittura due pregiudizi emergono dalle parole di Bottom. L'idea che esista un mondo imitabile per analogia e che questo mondo possa essere imitato più efficacemente per astrazione, individuando cioè nel modello matematico-geometrico la sua forma ideale per eccellenza. Alla luce di tali distorsioni, si spiegano i tentativi di demistificazione promossi dal progetto nomade Latourex: "Laboratoire de Tourisme Expérimental" per lo studio di pratiche turistiche basate su tecniche sperimentali di modificazione della percezione. Le strade, in uno dei possibili esercizi di emancipazione dagli schematismi sociali, vengono mostrate nel loro aspetto convenzionale, in quanto tracciano e seguono solo uno degli infiniti percorsi possibili, impedendo di percepire tutto quanto il passante sarebbe in grado di cogliere. Lo spazio attraversato si rivela straordinariamente ricco d'informazioni e, a seconda dei gradi d'attenzione del soggetto, permette di orientare il cammino in modo differente (benché una parte delle immagini-informazioni acquisite tenderà inevitabilmente a sedimentare nell'inconscio e a influire sul comportamento, al di là della volontà del soggetto).

"Stare sempre in piedi e camminare rischia di farci perdere di vista le informazioni più importanti. Perciò è bene inserire di tanto in tanto livelli che prevedano di stendersi, sedersi, strisciare, gattonare o arrampicarsi sugli alberi. I bambini lo fanno spesso e a guardarli si ha l'impressione che si divertano più degli adulti. E poi, si è mai visto uno scoiattolo che corre sempre nella stessa posizione? Mai, si adegua sempre all'ambiente".

K. Passig - A. Scholz, ibidem, p. 32

Efficacia della configurazione
Anziché cimentarsi in un rafforzamento della propria animalità, pur sempre soggetta al potere decisionale di un io pensante e volitivo, potrebbe essere sufficiente lasciar accadere il mondo nella sua "mondanità", nel suo esser qui e ora. L'intenzionalità del soggetto, condizionata dai processi fenomenologici di ritenzione e protensione, resta ben lungi dal produrre un'evidenza fondante della propria identità.

"Quel gesto atavico consiste nell'introdurre dietro al puro fenomeno un'entità senza dubitare di quell'intrusione, ponendo sotto il verbale il supporto di un sostantivo auto-sussistente, quindi sostanzializzato, supposto soggiacente e promosso sog-getto, che fa passare dal pensare all'io-penso. Quel gesto, come vede bene Nietzsche, è il gesto stesso della metafisica"

François Jullien, Essere o Vivere, Feltrinelli 2016, pp.227-228

Se la filosofia ha da tempo smascherato lo sdoppiamento favorito dalla struttura predicativa delle lingue indoeuropee, mostrando come il soggetto sia riconducibile a un ben preciso uso della sintassi e dell'espressione della propria percezione, l'io-penso continua però a riemergere come evidenza identitaria atta a instaurare un'origine, un punto zero. Essendo situato, cioé implicato originalmente in un mondo (l'Essere in quanto Esser-ci, nel linguaggio di Heidegger), ma anche evocato da questo stesso mondo attraverso il rimbalzo di una voce che gradualmente prende consapevolezza della propria provenienza, il soggetto riguadagna sempre l'iniziativa nella storia del pensiero ("con la voce significativa il punto di rimbalzo è fuori del corpo. Infatti la vox significativa non è un semplice "ehilà" per far girare l'altro o attrarre la sua attenzione; essa dice "girati!", col che lo dice anche all'emittente - dicendolo all'altro lo dico a me stesso: le due cose sono una e si coappartengono; cioé posso avere un "altro" in senso proprio solo nel momento in cui anch'io sono "l'altro", cioé sono "l'altro dell'altro". Potremmo dire anche così: "l'accomodamento nell'azione" sollecitato dal gesto vocale come semplice richiamo è un che di agito, ma non di saputo: esso ispira "oscuramente" abiti riflessi" - Carlo Sini, "La mente e il corpo", Cuem 1999, p. 95).

Il problema di fondo, come suggerisce proprio François Jullienne, non consiste in un pensare altrimenti l'origine o l'inizio dell'io, bensì nel procedere altrimenti: è davvero inevitabile introdurre un terzo termine, come fa Aristotele, quando gli estremi di una transizione lasciano presupporre un quid? E' realmente indispensabile individuare un supporto al movimento per designare ciò che soggiace nel cambiamento? Per quanto lo si spersonalizzi, lo si renda neutro e oggettivo, è sempre il soggetto a ritagliarsi da uno sfondo che subisce poi la propria riduzione a fuori rispetto a un dentro. Nel trascendere la situazione, il "ci" del suo "Esser-ci", il soggetto riconosce a posteriori - nel suo atto di proiezione - un esercizio di libertà fondativa, di presa di distanza e affrancamento dal mondo.

Così facendo, però, assume inevitabilmente una posizione parziale rispetto alle infinite possibilità della situazione. L'ambiente da cui il soggetto si astrae circoscrivendosi non è infatti uno spazio neutro, ma caratterizzato da disponibilità che orientano l'azione e, ancor prima, il movimento. E se la vita si manifesta come movimento che, nella presa di distanza fra un qui e un là, apre uno scarto, la situazione non può che apparire un momentaneo punto d'equilibrio di forze in tensione. Non è un caso che i trattati di strategia, dovendo prendere in considerazione le influenze che orientano l'azione (il potenziale di successo), si siano rivelati i testi più adatti per problematizzare l'intenzionalità.

"Questo potenziale è molto di più - e anche tutt'altra cosa - di un semplice concorso di circostanze, per quanto felice: preso nella logica di uno svolgimento regolato, esso è condotto a svilupparsi spontaneamente e ci può 'portare'. Due nozioni si trovano così al cuore dell'antica strategia cinese e fanno coppia: da un lato, quella di situazione o di configurazione (xing), che si attualizza e prende forma sotto i nostri occhi (in quanto rapporto di forza); dall'altro, e in corrispondenza con la prima, quella di potenziale (shi, si pronuncia she), che risulta implicato in questa situazione e si può far giocare a proprio favore. Negli antichi trattati militari (Suntzi, cap. V, 'Shi'), esso è illustrato dall'immagine del torrente che, nel suo slancio, è in grado di trascinare pietre"

François Jullien, "Trattato dell'efficacia", Einaudi 1998, p.21

Le orecchie sul piede
Difficile però che questa disponibilità, in quanto potenziale di efficacia, si palesi a un soldato su un carro armato o a un'automobilista in coda, essendo questi condizionati dall'attenzione e dalla percezione indotte dal loro mezzo di trasporto, oltre che dai loro ordini preconcetti. Non meglio va al "fante urbanizzato", il cittadino-pedone, pronto a gettarsi fra le braccia di seriosi produttori di mindscapes o d'improbabili coach, perché smarritosi nelle pieghe di una produzione dello spazio sempre più unidimensionale e senz'attrito. Vero privilegiato è in realtà chi si trova con le spalle al muro, sul punto d'affogare, o magari allo sbocco di un sentiero su un crepaccio, lungo un percorso gradualmente fagocitato dalla verzura di una foresta equatoriale. Costui ha infatti la possibilità di sperimentare in se stesso la decostruzione della propria identità di soggetto pensante, senza perdere però presa sulla vita. Vinta la paura che attanaglia le gambe e trasforma le mani in arpioni sulla roccia, inizierà a fare qualcosa d'inaudito: darà retta ai propri piedi.

"Il piede è un testimone eccellente, forse il più sicuro. Bisogna sapere se leggendo, il piede 'drizza l'orecchio' - perché in Nietzsche il piede ascolta, come si legge nella seconda 'canzone di danza' di Zarathustra: 'le dita dei miei piedi erano attente per udirti: perché colui che danza porta l'orecchio...in quelle dita!"

Frédéric Gros, Andare a piedi, Garzanti 2013, p.26

Chi ha smarrito la via potrebbe addirittura rinunciare alla vista e lasciare a improbabili sinestesie il compito di strusciarsi lungo una roccia a strapiombo in cerca di una cavità, di un punto d'appoggio di cui solo la mano, il piede, l'orecchio, la lingua, o verosimilmente tutti loro insieme e distinti, sanno giudicare la stabilità. Sente l'intero suo corpo tendere le orecchie in cerca di un richiamo. Lo avverte allargare le narici per scovare un odore familiare. Quell'impacciato cumulo di carne, nervi e muscoli evita a sorpresa sforzi eccessivi e sceglie gli avvallamenti che meglio invitano al passo. La forza di volontà della voce interiore resta invece offesa alla finestra e, senza quasi accorgersene, abdica a favore della saggezza della radice, dell'intelligenza del cumulo, dell'astuzia dello spuntone. Della tenacia che mantiene afferrati. L'esposizione al pericolo mortale non solo polarizza l'intelligenza dalla mente al corpo, ma trasforma proprio il corpo in qualcosa che, al tempo stesso, è uno e molteplice. Una rete di apici percettivi che richiama - forse in modo non peregrino - la struttura del micelio dei funghi, la cui presenza simbiotica nel corpo umano attende ancora di essere esplorata nelle sue implicazioni psico-motorie.

La documentata abilità delle ife di trovare il cammino più agile e il loro possesso di una memoria direzionale mostrano infatti una capacità di problem solving che, sino ad ora, l'uomo ha sempre attribuito, un po' misteriosamente, al generico potere dell'intuizione. Eppure esperimenti condotti su animali dotati di cervello, nonché addestrati a ricordare particolari del proprio ambiente, hanno dimostrato che il ricordo non è limitato a piccole aree di materia grigia, ma risulta distribuito in reti flessibili alla base dei comportamenti complessi. Secondo "la scienza delle reti", la network neuroscience, l'attività cerebrale è frutto dell'attività interconnessa di milioni di neuroni che si rimodellano di continuo in maniera flessibile, tanto da far pensare all'uomo come symborg (cioé un corpo potenziato in simbiosi coi funghi) e a protesi sotto forma di bio-computer (connessi ai funghi per via elettrica). 

"Il reticolo miceliare è la mappa della storia recente del fungo e ci ricorda che tutte le forme di vita sono 'processi', non 'cose'. L'io di cinque anni fa era molto diverso dall'io di oggi. La natura è un evento che non si ferma mai. Come ha osservato William Bateson, il biologo che ha coniato l'espressione 'genetica': "comunemente pensiamo agli animali e alle piante come a materia, mentre in realtà sono sistemi attraverso i quali la materia passa di continuo". Quando siamo di fronte a un organismo, che sia un fungo o un pino, catturiamo un frammento del suo sviluppo continuo"

Merlin Sheldrake, "L'ordine nascosto", Feltrinelli 2022, p. 71

Fra i funghi più "intelligenti", il Phycomyces blakesleeanus mostra non solo un incredibile sensibilità tattile, ma è addirittura in grado di percepire la presenza di oggetti vicini. Esclusi fenomeni di campi elettrostatici, umidità, segnali meccanici e temperatura, alcuni studiosi hanno ipotizzato che il fungo usi segnali chimici volatili che girano intorno all'ostacolo su minuscole correnti d'aria. Altre volte si affida a segnali di variazione di pressione e flusso. Come le piante, inoltre, i funghi possono vedere i colori dello spettro attraverso recettori sensibili alla luce blu e rossa, disponendo addirittura di opsine, pigmenti fotosensibili anche nei coni e nei bastoncelli dell'occhio animale. Le ife, che sono fra l'altro buone conduttrici di elettricità, percepiscono la consistenza delle superfici rilevando irregolarità sino a mezzomicrometro. Come osservava Charles Darwin ne Il potere di movimento delle piante, l'apice radicale si comporta proprio come il cervello di un animale inferiore, riceve le impressioni dagli organi di senso e dirige i diversi movimenti: una congettura divenuta poi nota come "root-brain hypotesis".

Il mondo dei funghi lascia dunque aperti percorsi euristici suggestivi, ma esempi di sapere cinestetico, capace di efficacia, non mancano di certo. La "Guida all'orientamento naturale per l'escursionista" di Tristan Gooley è un ottimo riferimento.

Ritualità del Walkabout

"Prendersi il tempo necessario per notare i punti di riferimento meno evidenti è un'abitudine che bisogna faticosamente coltivare. E' diffusa solo in tre categorie di persone con cui ho fatto un'escursione: gli artisti, i militari esperti e i popoli indigeni. Si direbbe quasi che studiare le caratteristiche più complesse di un territorio sia una cosa che la mente moderna trova difficile e stranamente innaturale. Se dovete sforzarvi per riuscirci, esistono due metodi per affinare le vostre doti. Il primo consiste nel trascorrere parecchio tempo in zone sperdute, privi di tecnologia, mappe e bussole; il secondo nel prendersi un po' di tempo per disegnare dei paesaggi. Solo uno dei due costituirà una soluzione pratica. La qualità del disegno non è importante, l'obiettivo è allenarsi nell'arte di osservare e distinguere"

T. Gooley, "Guida all'orientamento naturale per l'escursionista", Libreria Geografica 2019, p. 8

L'approccio di Gooley è certamente illuminante, ma ancora una volta insufficiente. Continua a far perno sulla vista, sul potere pre-giudicante delle identità e delle differenze, affidandosi alla metodologia della ragione anziché all'efficacia della praxis. 

Fra i nativi australiani, vittime di una delle più profonde e persistenti linee abissali, è invece questo il segreto dono dell'iniziazione al walkabout: rito di passaggio che - al raggiungimento del tredicesimo anno d'età - prevede sei mesi di vita solitaria negli spazi selvaggi. L'espressione inglese, che sprezzantemente distorce l'originario significato di "tornare alla terra degli avi", è ormai d'uso comune grazie al successo del romanzo che Donald Gordon Payne pubblicò nel 1959 col titolo Walkabout, basandosi sulle note del giornalista e attivista australiano James Vance Marshall. La trama ruota attorno ai tentativi di sopravvivenza di due giovani americani abbandonati nell'outback e, grazie al suo straordinario lirismo, nel 1971 divenne fonte d'ispirazione per l'omonimo film di Nicolas Roeg, interpretato dall'attore nativo David Gulpilil. Informazioni più attendibili circa l'origine dell'espressione si ritrovano nel dizionario Merriam-Webster, secondo cui il vocabolo sarebbe stato entrato in uso fra i possidenti terrieri australiani attorno al 1908, per indicare "un breve periodo di vagabondaggio nel bush intrapreso dagli aborigeni come interruzione del lavoro regolare" (Martin Bell - John Taylor, Population mobility and Indigenous peoples in Australasia and North America, Taylor & Francis 2003).

Tracciare vagabondando

Al di là di possibili rivendicazioni filologiche e libere interpretazioni, anni di confronto con i nativi non sono riusciti ancora a spiegare esattamente le complesse dinamiche che mantengono in vita quest'antichissima pratica. "L'obiettivo è rendere l'adolescente maturo abbastanza da sopravvivere a se stesso. Deve ritracciare le vie (songlines, ndr) che i suoi avi hanno percorso. Questo rituale aiuta a comprendere come 50mila anni fa gli uomini riuscissero a sopravvivere in diversi ambienti dell'Australia" (Juan Matias Inchausegui - Miguel Martin Perez, "Walkabout, the aboriginal rite of passage"). 

I giovani pronti per il walkabout non partono senza alcun tipo di preparazione, dal momento che insegnamenti basilari sono loro impartiti già prima del rito, soprattutto per quanto riguarda le capacità di sfamarsi o difendersi dai predatori. Essenziale, ad esempio, è imparare a riconoscere il cibo degli avi, come il pomodoro del bush, la prugna illawarra, un frutto simile a una pesca chiamato quandongs, o una gran quantità di bacche, noci e semi. Raggiunto un primo livello di autosufficienza, sono poi i genitori a chiedere al capo clan di avviare i figli al walkabout: un'esperienza di tracciamento strettamente correlata alla necessità del vagabondaggio, di un girare e rigirare a vuoto in un ambiente solo in apparenza ostile, ma custode nelle sue pieghe di una familiarità ancestrale. Lo fanno sino al momento in cui la terra "comincia a parlare", permettendo di sviluppare una profonda riflessione sulla vita e la loro stessa esistenza: le songlines ritracciate mettono in contatto spirituale con gli avi, ma inducono anche ad adattarsi alle continue trasformazioni della terra, concrezione delle spire di uno dei due serpenti cosmici creatori.

"I giovani devono procurarsi il cibo e allestire rifugi per sopravvivere. La maggior parte di loro matura una saggezza relativa a quali luoghi possano essere visitati e quali no. Guidano se stessi ricorrendo alle posizioni del sole e ai punti cardinali per comprendere dove siano e verso dove incamminarsi. I più si propongono di trovare una valle. Le valli sono infatti i luoghi più sicuri e semplici dove sopravvivere, perché l'acqua è quasi sempre nelle vicinanze. Quando fanno ritorno al clan dopo sei mesi, partecipano infine a una cerimonia con la propria famiglia e assumono un ruolo più importante e di maggiori responsabilità verso la comunità"

Inchausegui - Perez, cit. ibidem

L'irrompere dello smarrimento

Nel girare a vuoto il terreno apre sorprendenti passaggi invisibili e rivela a occhi d'infante un meraviglioso linguaggio, segreto ma comprensibilissimo. Dov'è diretto il corpo dello smarrito? Che strada ha imboccato? Ma, soprattutto, chi diavolo gli ha dato il permesso di fare di testa propria? Evidentemente la sua testa, che non sta più nel capo, ma si è spostata sulla punta degli alluci e nei peli del naso. E chi sta parlando, allora? Che cos'è la voce che impreca dagli abissi e non sa più indirizzare, né far rispettare i propri ordini? Allarme rosso! Allarme rosso! Qualcosa sta implodendo in lui. In me. In noi.

Il corpo-oggetto altro non è che un corpo vivente; l'Io egocentrico non ha più idea di dove si trovi, né se abiti da solo quel corpo tanto intraprendente, o in realtà lo stia condividendo con altri colleghi silenziosissimi, eppur straordinariamente efficaci. L'Io è perso perché improvvisamente non ha più luogo. Anzi, ha luogo ovunque sia evocato da un arbusto spinoso o da una pietra levigata. Passo dopo passo, però, inizia a riconoscerli prima del loro contatto. Sa che sono loro a indicare la via e li cerca, li aspetta, li scova. Comincia a studiare le alture, gli avvallamenti, le asperità. E' l'intero territorio a dispiegarsi in quanto mappa, ora. Marciando in discesa, un ripido tratto sembrerà meno inclinato di quanto sia in realtà, mentre il terreno pianeggiante apparirà leggermente in salita. Il corpo in movimento rivela all'io osservatore la sottile discrepanza che caratterizza la percezione prospettica delle pendenze. Mentre la mappa prende forma, il territorio la corregge. La aggiusta. La previene da ogni rischio di modellizzazione, mentre le informazioni sedimentano incessantemente le une sulle altre.

"Di volta in volta, l'io ha un ambiente circostante spazio-temporale limitato che egli percepisce immediatamente e del quale si ricorda in maniera immediata nel ricordo ritenzionale. Ma ogni io 'sa', è certo che l'ambiente circostante, posto come esistente nel modo dell'intuizione immediata, è solo una porzione intuita di un ambiente circostante complessivo e che le cose proseguono nello spazio (...) infinito. Allo stesso modo sa che la porzione di tempo dell'esistenza attualmente ricordata è solo una porzione dell'infinita catena che si estende all'indietro nel passato infinito, come sull'altro lato si dispiega verso un futuro senza fine"

Edmund Husserl, Husserliana XIII, p. 113; tr. it.., p.6

Produzione del punto zero

Qualsiasi esplorazione corporea è resa possibile dal rimando a un sistema di relazioni ideali spazio-temporali che ne stabiliscono la "normalità", via via che vengono a definirsi le differenti localizzazioni. Il corpo in movimento diviene perciò un punto zero (in analogia allo "xue" del fengshui cinese): il punto d'intersezione di molteplici vettorialità che contribuiscono a stratificare la psiche come soglia limite della percezione: per prendere distanza dall'immersione totale nella natura, il senziente è costretto dall'ambiente a entrare in opposizione e in lotta con se stesso, sino al conseguimento della vittoria sulla propria corporeità. Da una parte, il senziente ottiene infatti un 'abbassamento' della corporeità a 'segno' di se stessa; dall'altra il corpo si rivela al senziente (pur essendo corpo e senziente polarità dello stesso essere) come luogo d'esibizione dell'inanimato che si fa animato. Nulla di più lontano dalla tradizionale concezione dell'io come centro volitivo e decisionale.

L'occhio vede infine l'invisibile del tempo che fu. Se lo prefigura. Comincia a indovinare dove stia, perché il sentiero non è più fatto di sola terra calpestata, ma di tracce apparentemente nascoste. Piano piano prendono forma nuove regolarità. Le geomorfie del passato rivivono nelle geometrie dell'ora. Oltre l'ostacolo insormontabile appare a sorpresa un punto d'osservazione panoramico. Ecco l'àncora cui aggrapparsi nell'eterno spiralizzarsi della terra-serpente! Eccola, la salvezza! Da lassù il mondo riassume forme consuete, luci stabili, suoni stereofonici. Le mani tornano a toccare la carne anziché la terra, per quanto graffi, polvere, sangue abbiano confuso la loro pasta. Persino il battito del cuore ritrova il suo anfratto. Il respiro concitato la sua verticalizzazione. Il sudore il suo profilo di discesa. "Siamo soli al comando!", urla di nuovo una voce chiara e distinta. I molteplici flussi direzionali hanno disegnato nella loro reciproca intersezione il punto zero di una visione multiprospettica. La testa, che ora abita di nuovo il capo, si piega verso il basso. Steli d'erba schiacciati. Foglie strappate. Radici in evidenza. E' nata una nuova strada: arzigogolata, imprevedibile, audace. Non la più veloce, forse, né la più spettacolare. Certamente esaltante, perché nostra e soltanto nostra, ma da oggi disponibile per chiunque abbia occhi per vedere e orecchie per intendere le mappe altrui. 

Diamine! E quella laggiù, cos'è mai? Qualcuno, o qualcosa, dev'essere passato in prossimità del nostro cammino. Paiono orme di ungulato. Sì, mancano ciuffetti d'erba ai margini del tracciato. E sia! A ognuno la sua direzione.

...e ora un nuovo passo avanti: