4.7 Farfuglia, il nemico ti ascolta!
È tempo di sabotare l'uso distopico del linguaggio, riscoprendo la vocazione libertaria e creativa della filosofia. La battaglia dell'audio-visivo può essere combattuta muovendo dai 'vacuoli di non-comunicazione'
(se non letto prima, si rimanda al post "4.6 Il segreto del voyeur")
Comunicare meno, comunicare meglio. A mettere in guardia dai cortocircuiti fatali generati dall'uso inconsapevole delle parole e delle immagini è un'intervista rilasciata da Gilles Deleuze, dal titolo Controllo e divenire (in G.D., Pourparler. 1972-1990, tr. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000). Sempre più lontana dai modelli disciplinari del passato, la nostra società appare ormai articolarsi secondo forme di comunicazione istantanea e controllo continuo, al tal punto che entrambi i piani finiscono per sovrapporsi del tutto:
"Lei mi chiede se le società di controllo o di comunicazione non scateneranno forme di resistenza capaci di ridare una chance a un comunismo inteso come 'organizzazione trasversale' di individui liberi"..."creare è sempre stato altro dal comunicare. L'importante sarà forse creare dei vacuoli di non-comunicazione, degli interruttori, per sfuggire al controllo"
(G. Deleuze, ivi, p.231)
Rifacendosi agli studi di Foucault, Deleuze e Guattari hanno riportato l'attenzione sulla "trascuratezza" della filosofia nei confronti della propria vocazione creativa, così come sulla sua rinuncia a creare concetti per rifugiarsi in comodi "universali", lasciando inevitabilmente terreno a discipline tanto specialistiche quanto cieche a se stesse.
"Infine il fondo della vergogna fu raggiunto quando l'informatica, il marketing, il design, la pubblicità, tutte le discipline della comunicazione si impadronirono della parola stessa 'concetto' e dissero: è affar nostro, siamo noi i creativi, siamo noi i 'concettualizzatori'!"
(G. Deleuze - F. Guattari, Che cos'è la filosofia?, a cura di C. Arcuri, tr. di A.. De Lorenzis, Einuadi, Torino 1996, p.XIX)
Il progressivo impoverimento creativo del soggetto può essere facilmente rilevato attraverso l'uso del linguaggio parlato, nel quale, ad esempio, appare sempre più manifesta la tendenza a leggere le azioni, ma anche i singoli gesti della vita quotidiana, come replicazioni delle trovate pubblicitarie o dei film da antologia. Che si tratti di un particolare atteggiamento del corpo, di una smorfia o di una battuta ironica (per quanto innocenti o spontanee), ogni espressione tende a essere ricondotta per effetto di assonanza a tali paradigmi, quasi che, solo in essi, possa trovare la propria ragion d'essere.
La distinzione fra piano dell'illusione e piano della realtà viene a dileguarsi completamente, perché la realtà trae senso dall'illusione, configurandosi come sua mimesi. L'aspetto più insidioso di quest'abitudinarietà associativa (il "come se" cede il posto all'immediato "è") sta nel fatto che il 'gesto riflesso' non è più vissuto col deliberato intento di offrire una rappresentazione del 'gesto originario' e per affermare implicitamente il legame fra "cosa" (il gesto originario) e "parola" (ciò che dice il gesto originario, sia esso "pro-posta/ris-posta" del corpo o della voce): quel che si suppone essere il gesto originario, in realtà è un gesto già manifestato per dire qualcosa attorno a esso. Mentre cade prigioniero della circolarità della scrittura, l'uomo contemporaneo appare condannato a ripetere all'infinito le finite possibilità di lettura del Medesimo: suo malgrado diviene ostaggio della parola, proprio perché il gesto radicale, o trasgressivo, rivela il luogo che istituisce la corrispondenza fra cose e parole.
Se questa corrispondenza-congiunzione non è mai data, bensì costruita, va da sé che è possibile anche decostruirla per tornare ad affermare "altro" dal già-detto.
"Nonostante l'apparenza, il calligramma non dice, in forma di uccello, di fiore o di pioggia: 'questo è una colomba, un fiore, un acquazzone che si riversa'; non appena si mette a dirlo, non appena le parole si mettono a parlare e a liberare un senso, l'uccello è già volato via, la pioggia si è già asciugata...il calligramma non dice e non rappresenta mai nello stesso momento; quella stessa cosa che si vede e che si legge è taciuta nella visione, nascosta nella lettura"
(M. Foucault, Questa non è una pipa, op.cit., pp.31-32)
A titolo d'esempio, la pittura di René Magritte non fa altro che evidenziare in modo lampante il paradosso dell'audiovisivo, ma non può essere considerata meramente l'espressione d'eccentricità di un artista belga. La sua provocazione, o meglio la sua trasgressione, va a intaccare l'intero nostro sistema di comunicazione alfabetizzata: il calligramma è cioè lo spettro dell'alfabeto, l'elemento chiave che dà avvio a quella "battaglia audiovisiva" di cui parla Deleuze, in riferimento agli studi di Foucault su Raymond Roussel. Ma chi è mai quest'artista dal nome curiosamente assonante? (continua 4.8)