4.9 La falsa libertà dell'eterno ricominciare

14.02.2023

Il tentativo di sottrarre la verità e il soggetto a ogni possibile vincolo logico non culmina col trionfo della libertà, bensì con l'oblio; salvo l'uomo occidentale non prenda coscienza che ogni traccia trova sempre una via per sedimentare: il corpo-mondo

(se non letto prima, si rimanda al post "4.8 I fronti opposti della battaglia audiovisiva")

La battaglia dell'audio-visivo scopre un nervo vitale - o ancor meglio 'fatale' - dell'epistemologia occidentale. Scrive non a caso Foucault ne Il pensiero del di fuori (in SL, op. cit., p. 111):

"La verità greca ha tremato, un tempo, in questa sola affermazione: "io mento". "Io parlo" mette alla prova tutta la finzione moderna"

Se il Paradosso di Epimenide (cioé la proposizione autonegante "Questa frase è falsa") può essere risolto distinguendo il "tipo" di proposizione usata, stabilendo una gerarchia fra l'enunciativa "e" l'oggettiva, l'io parlo della modernità pare superare incolume i rischi del collasso. Risulterebbe la dimostrazione di come sia possibile escludere quel "fuori" minaccioso che incrina la pretesa di verità della logica discorsiva, non consentendole di affermare altro, fuorché se stessa. L'affermazione s'impone nell'adattarsi semplicemente a se stessa, non debordando da alcun margine, scongiurando ogni pericolo di errore perché nient'altro dice, se non il fatto stesso che io parli. Ma davvero funziona così?

"L'io parlo non pone la sua sovranità che nell'assenza di qualsiasi altro linguaggio; il discorso di cui io parlo non preesiste alla nudità enunciata nel momento in cui io dico "io parlo"; ed esso sparisce nell'istante stesso in cui io taccio"

(ibidem, p.112)

Il problema di fondo interessa allora il soggetto enunciante, l'unico che possa garantire l'esistenza del linguaggio in termini "oggettivi", che possa cioè affermare: "questo è il linguaggio". A ben guardare, tuttavia, il soggetto non è più l'autentico responsabile del discorso, perché a emergere è solo "l'inesistenza nel cui vuoto l'effondersi indefinito del linguaggio si insegue senza tregua".

Foucault sta qui mostrando come passare al di fuori: il linguaggio sfugge al modo di essere del discorso, alla sovranità della rappresentazione, sviluppandosi a partire dalla parola stessa e dalla sua dispersione in uno spazio non definibile. La scoperta della non riflessività del linguaggio ha tuttavia implicazioni di carattere politico: contestare le positività sedimentate nel senso comune serve a creare una condizione di vuoto originario, di oblio, attraverso cui la successiva opera di edificazione viene a dipendere dalla nostra sola creatività. Limitarsi a una forma di negazione dialettica è quanto di più erroneo, poiché significa restar prigionieri una volta ancora degli stratagemmi dell'interiorizzazione. Negare il proprio discorso, alla stregua di Maurice Blanchot e a costo di apparire tanto incoerenti quanto contraddittori (in linea con l'ironico "um so besser! " - tanto meglio! - nell'intercalare di Nietzsche), significa farlo passare di continuo fuori da se stesso, liberarlo a ogni istante non soltanto da ciò che ha detto, ma anche dal potere stesso di enunciarlo: questa è forse la più profonda e accessibile libertà dell'eterno ricominciare.

Per Foucault non è possibile riconciliazione, ma ripetizione continua: là dove il soggetto è stato scalzato dal suo illusorio ruolo di sovrano del tempo, in grado di "progettare" lo spazio del divenire usufruendo di esperienze passate senza alcun condizionamento esterno, l'unica soluzione per mantenere la propria libertà è concedersi all'oblio. Cancellare tutto per ricominciare ogni volta, partendo dal vuoto che ci circonda. Raggiungere il punto zero della scelta, ove nessuno può offrirci una garanzia più certa di un'altra. La "e" si rivela allora una "o". Ma alla latina: non un "aut" (contrappositivo), ma un "vel" (possibilitante).

Eppure, quest'inquieta reversibilità non sta muovendosi ancora e inevitabilmente per le faglie del non sedimentato? (continua 5.0)