3.5 Imprevedibilità degli archivi organici 

30.01.2023

La capacità di cumulare esperienze non solo nella memoria della mente, ma in quella della carne, dà modo al corpo di produrre risposte imprevedibili perché oltre ogni temporalizzazione analitica. Dipendendo da processi individuali, questi fenomeni trasgressivi eludono però anche l'enunciato 

(se non letto prima, si rimanda al post "3.4 La simulazione come unica resistenza possibile")

Cambiare e cambiare ancora. La consapevolezza di essere costantemente esposti, di trovarsi sotto la lente del giudizio altrui (un giudizio, oltretutto, mai stabile e ricorrente), induce a modificare di continuo la propria individualità: per Foucault non è questa, tuttavia, una semplice reazione di difesa contro l'invasività tecnocratica - una reazione finalizzata a simulare più volti per evitare di far sapere quale sia il nostro 'autentico' e conservare dunque un segreto che sia il 'proprio' (l'irriducibile peculiarità che mi distingue dall'altro) - bensì una produzione di individualità dipendente dal divenire stesso della vita.

Il soggetto risulta infatti investito da una modificazione continua degli stimoli esterni: se sa di non essere ciò che dà a vedere, e dà a vedere perché pur difendendo la propria alterità vuole sentirsi e riconoscersi parte del medesimo, la sua alterità può prodursi solo per riflesso rispetto a un "già dato"; mutato quest'ultimo, muta pure la modalità con cui vi si rapporta, non conservando alcuna continuità temporale e rendendo quindi impossibile l'ipostatizzazione di un "io". La società del controllo appare unidimensionale rispetto all'analitica del tempo: il presente risulta la sola realtà in cui può prendere forma l'individualità del soggetto, ragion per cui mai si dà sintesi di vissuti; solo successione seriale e continua sostituzione.

Vivendo in un mondo frammentato e labirintico, l'individuo scisso in se stesso, cioé il dividuo, mantiene sempre la possibilità di individuare una via di sviluppo alternativa: se è pur vero che ognuna di queste apre a un percorso già tracciato, dunque conoscibile e calcolabile in virtù dell'enunciato, è altrettanto evidente che l'infinita possibilità di farsi altro rappresenta di per sé una via di fuga trasversale al controllo. La possibilità di sperimentare occasioni di alterità già definite, in un arco di tempo ristretto, innesca infatti una variabile imprevista. Il controllo si esercita in modo analitico, ha bisogno di scindere e moltiplicare le parti per visualizzare l'unità: basti l'esempio di lettura del genoma umano, che viene segmentato in basi per distinguerne le diverse funzioni, senza tuttavia godere della possibilità di determinare con certezza i loro effetti (quel che il biologo ed epistemologo Jean Jacques Kupiec ha definito "La concenzione anarchica del vivente"). Il dividuo, che usa il proprio corpo come unico supporto per le infine occasioni di alterazione concessegli, può infatti giovarsi della possibilità di sussumere in esso - cioé di trascrivere nella propria carne - le esperienze frazionate dal controllo. Differentemente dall'analisi, la sussunzione (il cui significato va evidentemente differenziato dall'accezione razionalistica di stampo kantiano, essendo vicina, piuttosto, al concetto organico di sedimentazione, di stratificazione), lascia scaturire un elemento di novità imprevedibile, o di radicale trasgressione, che non può essere contenuto in un numero definito di percorsi tracciati. Questa potrebbe essere dunque l'arma segreta cui appellarsi contro il controllo, la boa d'attracco del soggetto nelle intemperie del divenire: il corpo come archivio organico della temporalità.

"È a partire dalla sua figurazione (dal "figurarsi" o "atteggiarsi" del corpo) che si apre una "scena", un luogo di rappresentazione, una "situazione" spazio-temporale che supponit pro, cioè in cui la vicenda del mondo è rappresentata. Il teatro, lo spazio di visione, lo spectaculum, il luogo di rappresentazione: tutto ciò promana originariamente dall'attore. Però non solo dall'attore, ma anche e insieme dalla complicità dello spettatore. È nel desiderio complice e rispecchiato della rappresentazione che il teatro accade"

(C. Sini, La virtù politica, Cuem, Milano 2000, p. 157).

Interessante notare come le figurazioni del soggetto non siano frutto di un'originalità intrinseca, sfuggevole e caotica; le "sussunzioni carnali" sono altresì orientate dall'immagine che il soggetto assume come modello (da emulare o rifuggire) nel "fuori". Se il modo in cui si intersecheranno le caratterizzazioni delle differenti figurazioni non è prevedibile, possibile è risalire invece alla loro genesi dal contesto in cui hanno fatto la propria apparizione. In questo senso il corpo - al di là delle variabili soggettività da cui è abitato - risulta l'originale soglia di scansione fra il "fuori" e il "dentro", il luogo (o la "posta") in cui si materializza lo scambio della pro-posta/ris-posta. Se l'archivio è dunque il corpo, esso dovrà essere inteso come "ciò che fa sì che tante cose dette, da tanti uomini in tanti millenni, non siano sorte soltanto grazie alle leggi del pensiero, o grazie al solo complesso delle circostanze, che non siano semplicemente la segnalazione, al livello delle performances verbali, di ciò che si è potuto svolgere nell'ordine dello spirito e delle cose; che esse siano apprese grazie a tutto un meccanismo di relazioni che caratterizzano il livello discorsivo...l'archivio è anzitutto la legge di ciò che può essere detto, il sistema che governa l'apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli" (M. Foucault, AS, op. cit., p. 173).

L'archivio non è ciò che semplicemente salva - malgrado la sua fuga immediata - l'evento dell'enunciato conservando il suo stato civile di evaso per le memorie future; è ciò che, alla radice stessa dell'enunciato-evento e nel corpo in cui si dà, definisce sin dall'inizio il sistema della sua enunciabilità.

"Tra la lingua che definisce il sistema di costruzione delle frasi possibili e il corpus che raccoglie passivamente le parole pronunciate, l'archivio definisce un livello particolare; quello di una pratica che fa sorgere una molteplicità di enunciati come tanti eventi regolari, come tante cose che si offrono al trattamento e alla manipolazione"

(ibidem, p. 174).

L'autentico luogo del controllo si configura allora nel corpo sovrascrivibile, privo di un soggetto dispotico che ne regola i flussi evolutivi, ma preso in un gioco di continue sovrapposizioni e commistioni autoregolantesi in funzione della libertà di spazio originaria.

"Gli individui decidono, mettendo al mondo delle decisioni che reputano loro, nonostante gli archivi culturali manifestino nei confronti degli attori che hanno sulle loro spalle l'onere della decisione un forte carattere ingiuntivo...esistono scelte congenite a un campo di significati a cui potremmo sentirci legati da un vincolo polemico, mentre proprio questa normalità dovrebbe dimostrare che i nostri rapporti con il mondo sono regolati da un perpetuo sì...ma"

(C. Montaleone, Homo loquens, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, pp.22-23).

Noi diamo cioè il nome di controllo a un processo di cumulo riconoscibile soltanto nelle stratificazioni acquisite del linguaggio e dei costumi. Di fatto, tuttavia, l'archivio non è descrivibile nella sua totalità e non è circoscrivibile nella sua attualità. Esso si dà per frammenti, regioni e livelli.

"La descrizione dell'archivio sviluppa le sue possibilità (e la padronanza delle sue possibilità) a partire dai discorsi che hanno appena cessato di essere nostri; la sua soglia di esistenza è instaurata dalla frattura che si separa da ciò che non possiamo più dire, così come da ciò che cade fuori della nostra pratica discorsiva; incomincia con l'esterno del nostro linguaggio"

(M. Foucault, AS, op. cit., p. 173).

Tali identificazioni sono riconoscibili solo nel momento in cui vengono nominate, messe in parola, dunque garantite nella loro "oggettualità": "La parola identifica nel nome, arrestando il continuum dell'evento (della vita eterna "in-stantanea") sulla soglia del significato. Soglia "impercettibile" in cui accade (si manifesta) la relazione (fondamentale e costitutiva) evento/significato" (Carlo Sini, La virtù politica, op. cit., p. 176).

La parola, ancora, fa presente l'assente (inteso come "non ancora detto", invisibile solo all'occhio non ancora educato dal linguaggio), ma rende anche assente il presente, riducendo a puro nome la presenza vivente (il continuum).

"Qui si radica il cosiddetto enigma del tempo: non si tratta del fatto che il presente sarebbe un istante misterioso che sfugge sempre perché affetto da un divenire assoluto e perciò inconcepibile persino come divenire, secondo il paradosso di un essere che sempre "non è", pur essendo la sostanza più profonda di ogni evento (il passato non è più, il futuro non è ancora, il presente non è mai ecc.). Questa è una lettura capovolta della cosa, ammaliata dalle parole proprio mentre si figura di descrivere "il tempo com'è". Semplicemente: è il presente "nominato" e in quanto nominato che non c'è mai. Nel tempo come continuum vivente si inserisce, tramite la pratica a sua volta vivente della parola, l'assenza costitutiva che è propria del significato"

(ibidem, p. 179/180).

Il luogo dell'archivio è allora il corpo come "scarto" delle nostre pratiche discorsive: esso ci distacca dalle nostre continuità; dissipa quell'identità temporale in cui amiamo contemplarci per scongiurare le fratture della storia; spezza il filo delle teleologie trascendentali.

"...noi siamo differenza, la nostra regione è la differenza dei discorsi, la nostra storia la differenza dei tempi, il nostro io la differenza delle maschere. [Perché] la differenza non è origine dimenticata e sepolta, ma quella dispersione che noi siamo e facciamo"

 (M. Foucault, AS, op. cit., p. 176).

La soluzione è di nuovo un problema: possibile per la parola comprendere realmente la funzione dell'archivio? (continua 3.6)