3.6 Se il controllo si fa carne

31.01.2023

Grazie all'illusorietà del "come se" e della simulazione, la norma stempera la propria insopportabilità ingiuntiva, ma riproduce anche quel processo di scissione del soggetto che alimenta spazi di resistenza. Solo incarnandosi il controllo può raggiungere l'efficacia massima; l'entrata nell'era della biopolitica e della biotecnologia

(se non letto prima, si rimanda al post "3.5 Imprevedibilià degli archivi organici")

Il farsi simulacro di se stessi, in quanto infinito variare nel circolo della ripetizione, spinge a tornare una volta ancora alla connivenza fra gioco e controllo. Anche il gioco, infatti, è regola pura, ma nella peculiare accezione del "mettere in scena" la regola, del "rappresentarla", del viverla e muoverla secondo le proprie leggi. Osserviamo qui una sorta di ossequio all'ingiunzione data, cui siamo chiamati a uniformarci appellandoci però alla creatività. Nel gioco, la regola muta pelle e istituisce un livello di finzione, perché il sentimento del "come se" ne allenta l'insopportabilità ingiuntiva, permettendole di assolvere meglio la sua funzione. In definitiva, il gioco introduce due variabili significative nella dimensione del controllo:

"il tratto della pluralità, il fatto cioè che ci sia una molteplicità di giochi possibili da giocare, e il carattere di provvisorietà, il gioco si riproduce e si ripete, ma non è per sempre. Sotto questo aspetto, il gioco sembra offrirci un margine (sia pure incerto) d'intervento, di alternativa e di libertà"

(Luisella Feroldi, Lo show-off del controllo, op.cit., p.124).

Analogamente a quanto messo in luce da Foucault riguardo al potere (cfr. La volontà di sapere), costretto a scoprire parzialmente le proprie carte, a incitare forme di rivolta contro gli aspetti più invasivi della sua stessa imposizione (badando bene di mantenerle nel limite del consentito) per penetrare più a fondo e farsi accettare dall'uomo, a sua volta il controllo tende a esibirsi in chiave ludica. Potere e controllo si rivelano dunque tanto intrecciati, quanto speculari: le armi per sottrarvisi, paradossalmente, sono messe a disposizione dalle stesse modalità che li articolano. È questo, forse, uno degli aspetti del potere più insidiosi per la capacità di resistenza dell'uomo: credere di opporsi, di essere alternativi al potere e al controllo, mettendo semplicemente in atto ciò che da essi è già stato instillato nell'immaginario "rivoluzionario".

Risentendo della visione di Orwell nel suo epocale "1984", per lungo tempo il controllo è stato infatti letto solo attraverso la logica dei grandi congegni anonimi (come lo Stato, la modernizzazione, l'industrializzazione, le forme del progresso): oggi, al contrario, il gioco svela una nuova logica, "da una parte altrettanto chiusa, sistematica e autoriferita ("al pari del congegno meccanico"), dall'altra però non è altrettanto opprimente e imponderabile. In altri termini, il gioco lascia la speranza di una soluzione o di una via d'uscita, mostrando il cotè più fragile e corruttibile del 'meccanismo'" (ib., p.124).

Alla luce delle suddette considerazioni, possiamo comprendere meglio l'enorme importanza attribuita al simbolismo dello "specchio" nella riflessione di Foucault: uno specchio inteso come luogo d'esibizione in cui il soggetto "gioca" eternamente col proprio destino. La sua magia è tutta nell'incanto del guardante, che scorgendosi nel riflesso annulla ogni distanza fra sé e il mondo, ma muore anche nel momento stesso in cui scopre l'effetto della sua illusione. Quando lo specchio viene rotto e ridotto in frantumi dal medesmo soggetto che vi si riflette, il "danno teoretico" è irreparabile: rimessi insieme i cocci, l'immagine restituita non appare più liscia, né imperturbata nella calma continuità della sua illusione, ma solcata dalle cicatrici dei frammenti che ne attestano il segreto svelato. Questo non significa che oggi sia diventato impossibile specchiarsi, ma dal preciso momento in cui lo specchio della metafisica si è frammentato, il soggetto occidentale è stato violentemente sottratto all'abbraccio della vita, finendo proiettato in una dimensione parallela dai confini sfuggenti, mutevoli: la dimensione della parola razionale, la cui pretesa di dire tutto non è solo quella di travalicare i divieti; ma quella di procedere sino ai limiti del possibile. Nessuna sorpresa, allora, se le modalità di funzionamento delle tecnologie di controllo sollecitino sempre la trasgressione quale forma di resistenza del corpo, anziché la sintesi dialettica delle esperienze. Ciò vale ancor più per le sofisticate apparecchiature di comunicazione, dai monitor interattivi alla semplice chat: per quanto sfiorino la capacità di raggiungere una trasmissione di informazioni in "tempo reale", in "presa in diretta", l'immediatezza viene irrimediabilmente persa nella virtualità dello scambio. La vita "in carne ed ossa", infatti, è e resta sempre altra cosa dalla copia virtuale.

"Ciò che caratterizza i mezzi di comunicazione di massa è il fatto che impediscono ogni mediazione, sono "intransitivi" - se siamo d'accordo che la comunicazione deve essere definita come uno scambio, come lo spazio reciproco di una parola e di una risposta, e perciò di una responsabilità [...]; se la definiamo, cioè, come qualcosa di diverso dalla mera emissione/ricezione di un'informazione, anche nel caso questa possa divenire reversibile attraverso la controreazione (feedback)"

(Jean Baudrillard, Per una critica dell'economia politica del segno, Mazzotta, Milano 1974, p. 182).

Rendendo impossibile ogni processo di scambio, i media (social network inclusi) alimentano la simulazione delle risposte. Per quanto i soggetti parlino e mostrino, mai prende forma una risposta reale. Anzi, questo squilibrio risulta aggravato nella sua illusorietà dalla peculiare struttura gerarchica e polemica dei media, la quale moltiplica i punti di potere per il numero di spettatori o ascolatori investiti da loro processo di scambio mutilato.

Senza dover modificare troppo i termini di relazione, il paradosso appare molto più evidente riportando l'attenzione alle apparecchiature di sorveglianza. Nei media viene filtrato un messaggio che incita all'azione o alla passività, ma rispetto al quale il soggetto non può far altro che recepire (il che non significa necessariamente assentire). Attraverso le telecamere, il soggetto sa che deve comportarsi nello stesso modo lasciato intendere dai media come conforme alla norma; se ignora di essere osservato (soprattutto nel momento in cui sono gli altri che non possono osservarlo), il suo comportamento non costituisce invece un problema, perché non può essere riconosciuto e definito propriamente come trasgressivo. Quando la tecnologia viene sviluppata al di là della dimensione biologica, che è fondata sulla con-divisione, il comportamento umano diviene semplice reazione, non certo azione produttiva e creatrice.

Il controllo, se non riesce a evolvere in biotecnologia, non può che che basare la sua efficacia sulla piena visibilità di una realtà "obiettiva", chiusa cioè in uno spazio definito, non trasgredibile, mai scavalcabile. Come può però la sola visione, per quanto ininterrotta, garantire il carattere veritiero del dato? Se l'efficacia resta correlata alla propria segretezza, il controllo dovrà allora trovare nuove forme di invisibilità e ibridazione, scendendo sotto pelle. Entrando nella carne del soggetto. Il synoptismo ha rappresentato la prima epocale trasformazione del controllo, volta a prevenire l'autocontraddittorietà del panoptismo: pretendere di vedere tutto, escludendo proprio se stesso, anziché vedere tutto, ma insieme. Ma non basta. Occorre vedere senza produrre dividualizzazione dei corpi. Il controllo reciproco è insufficiente, perché a sua volta sbilanciato. Nessuno spazio bianco, nessun buco d'incertezza può essere tollerato, perché produce asimmetrie prospettiche. Il controllo, per potersi esercitare al massimo livello di efficacia, ha bisogno d'incarnarsi. Proprio come Dio. (continua 3.7)