1.6 L'occhio indiscreto

07.01.2023

Il gioco presuppone quattro categorie che danno vita ad accoppiamenti variabili. Se l'abitudine spinge alla predittività, la combinatoria conserva invece un nucleo irriducibile di possibilità "in" visibili

(se non letto prima, si rimanda al post "1.5 La palestra del gioco")

Nella disfida fra leopardo e tartaruga sono riconoscibili elementi riconducibili alle quattro fondamentali categorie utilizzate da Callois per classificare il gioco (Op cit., p.28): l'agon (la competizione), l'alea (il caso), la mimicry (il simulacro) e l'ilinx (la vertigine).

Il leopardo incarna infatti lo spirito della competizione, che concede alla tartaruga sia la scelta del luogo sia l'esecuzione del "suo rito", onde equiparare idealmente l'uguaglianza delle probabilità di successo fra i contendenti del duello. La rivalità si rapporta sempre a una sola qualità (rapidità, resistenza, forza, memoria, abilità, ingegnosità, ecc.) e si esercita entro limiti ben definiti, senza alcun intervento esterno, in modo che il vincitore appaia il migliore in una determinata categoria di imprese. Per quanto scrupolosamente si cerchi di predisporla, un'assoluta parità qualitativa non sembra tuttavia interamente realizzabile. L'agon si presenta comunque come la forma pura del merito personale e serve a manifestarlo.

Si obietterà che questo non è un semplice confronto di capacità, bensì un vero e proprio duello. Eppure, come riconosce ancora Caillois (ibidem) "al di fuori o al limite del gioco, si trova lo spirito dell'agon in altri fenomeni culturali che obbediscono allo stesso codice: il duello, il torneo, alcuni aspetti costanti e particolari della guerra cosiddetta cortese". L'elenco potrebbe comunque essere arricchito da molti altri giochi di potere, a cominciare dalle lotte per l'affermazione professionale. Gli studi di Karl Groos (vedasi, ad esempio, Les jeux des animaux, Parigi, 1902) attestano fra l'altro lo spirito di un raffinato "agon" negli animali stessi, assai più raffinato di quanto l'uomo metta spesso in mostra nelle sue competizioni trasversali.

L'alea, parola latina che indica il gioco dei dadi, individua "una decisione che non dipende dal giocatore e sulla quale non può minimamente far presa; giochi nei quali si tratta di vincere non tanto su un avversario, quanto su un destino" (ibidem, p.33). Difficilmente si riscontrano giochi in cui l'alea si presenta allo stato puro, essendo sempre possibile stabilire alcune modalità per rapportarsi al caso che, più o meno indirettamente, cercano di piegarne l'esito a proprio favore (basti un solo esempio: la particolare inclinazione del polso nel lancio dei dadi). È ciò che Caillois esprime attraverso il ricorso alla modalità del "ludus", che fa appello a microforme di organizzazione volte ad equilibrare l'irruenza fantasiosa e metamorfica della "paidia".

Agon e alea, pur esprimendo atteggiamenti opposti, sono in qualche modo simmetrici ed obbediscono ambedue ad una stessa legge: la creazione artificiale, fra i giocatori (o i duellanti), di condizioni di assoluta uguaglianza che la realtà nega agli uomini. L'alea può infatti premiare il più svantaggiato fra i due contendenti, che si concedono passivamente al responso del caso. Nell'uno o nell'altro modo, si evade dal mondo facendolo altro. Si può evaderne anche facendosi altro.

A questo bisogno risponde la mimicry, parola inglese che indica il mimetismo, segnatamente degli insetti, per sottolineare la natura fondamentale ed elementare, quasi organica, dell'impulso che suscita le manifestazioni mimetiche. "Ogni gioco presuppone l'accettazione temporanea, se non di un'illusione (per quanto quest'ultima parola non significhi altro che entrata in gioco: in-lusio), almeno di un universo chiuso, convenzionale e, sotto determinati aspetti, fittizio. [...] il soggetto gioca a credere, a farsi credere o a far credere agli altri di essere un altro"  (op.cit., p.36). È questo il caso della tartaruga che, pur assentendo formalmente a un confronto incentrato sulle caratteristiche dell'agon, fa ricorso alla mimicry per destabilizzarne i fondamenti. Proprio l'imitazione risulterà più avanti la modalità maggiormente efficace per incrinare le maglie del controllo, essendo il paradigma di quella filosofia del doppio che Foucault ha analizzato in opposizione alla rigide costruzioni binarie della logica.

Non è infatti sul piano della forza, cioè della qualità in virtù della quale si terrà il duello, che la tartaruga intende portare avanti la propria lotta, bensì facendo appello al potere trasversale della mimicry. Quest'ultima spiazza appunto il leopardo, guadagnando in efficacia grazie all'apertura insita nell'alea, che espone a un fuori non pienamente controllabile (benché evocabile attraverso le risorse del ludus), in grado alla lunga di ribaltare l'esito scontato del duello: la tartaruga mette in scena una lotta che non è mai esistita, ma lo fa attraverso un linguaggio non leggibile. "È evidente - conferma ancora Caillois - che la rappresentazione teatrale e l'interpretazione drammatica entrano a pieno diritto in questo gruppo (cioè il gruppo delle azioni peculiari alla mimicry, ndc)" (op.cit., p.38).

La scelta di caratterizzare lo scontro con una certo gusto per la teatralità non è poi tanto peregrina. È proprio l'alea a garantire la possibilità di successo del "segreto", differendone a un tempo imprecisato lo svelamento mascherato; non si può infine esulare dalla considerazione che questa strategia sia permeata pure dallo spirito dell'ilinx, ovvero dalla deliberata ricerca della vertigine nel tentativo di distruggere, seppur per un attimo, la stabilità della percezione e far subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico: la tartaruga si stordisce nel rotolarsi a terra e, di riflesso, mina la sicurezza del leopardo.

L'equilibrio del confronto è irrimediabilmente alterato: l'aspettativa del leopardo (esemplificata dal binomio agon-alea, cioè competizione-caso) non si riflette simmetricamente in quella della tartaruga (che appare piuttosto fondata sul binomio alea-mimicry, caso-imitazione), tanto che il risultato della lotta, su lungo termine, potrebbe premiare la combinazione alea-mimicry, caso-imitazione. Diciamo "potrebbe", perché la certezza che giunga uno sguardo capace di dare leggibilità alle tracce lasciate sul terreno non è assolutamente garantita.

Non c'è una proporzione il cui risultato dia zero, dunque equilibrio perfetto. Sul fronte della tartaruga la mimicry si cela come agon, simula una competizione, ma al termine delle semplificazioni si annulleranno solo le reciproche aspettative fondate sull'alea (schematizzando, agon: alea = alea: mimicry). Il caso cede il posto al responso: è il leopardo a vincere. Ma l'agon si trova ora equiparato alla mimicry; quest'ultima, operando sulla sfera del significato (equivocità delle tracce che attestano una lotta fasulla), dunque su una dimensione che trascende il tempo cronologico, attribuirà la qualità dell'agon - cioè la forza, per natura mai posseduta dalla tartaruga - sul soggetto inizialmente sconfitto. Insomma, i giochi sono fatti e la tartaruga può permettersi di morire in pace. Sarà il suo "spettro" a degustare il sapore intenso di una vittoria postuma.

Lo "spettro" della tartaruga non turba soltanto le notti del povero leopardo, che ancora ignora per quale motivo tutti gli altri animali della giungla abbiano iniziato a guardarlo con minor riverenza, ma l'occhio dell'Occidente intero. Pur avendo esorcizzato da lungo tempo la paura dell'evanescente immagine che si sottrae all'oltretomba per risalire fra i vivi, molti, forse troppi, continuano a divincolarsi nelle reti del secondo e più temibile volto dello "spettro": gli effetti policromatici scaturiti dal passaggio della luce nel cristallo della conoscenza hanno infranto davvero il modo di vedere della metafisica tradizionale, moltiplicando il campo della propria percezione secondo le tonalità dell'iride? O, al contrario, è più probabile che il nostro sguardo sia rimasto vittima di un mero gioco illusionistico?

La strategia messa in atto dalla tartaruga è destinata a scontrarsi violentemente col sogno di Jean Jacques Rousseau, che immagina "una società trasparente, al tempo stesso visibile e leggibile in ciascuna delle sue parti", ove "non ci siano più zone oscure, zone regolate da privilegi del potere reale o dalle prerogative di questo o di quel corpo, o ancora dal disordine", e soprattutto in cui "ciascuno, dal punto che occupa, possa vedere l'insieme della società", affinché "i cuori comunichino gli uni con gli altri, gli sguardi non incontrino più ostacoli, regni l'opinione, l'opinione di tutti su tutti" (L'occhio del potere, in Panopticon, di J. Bentham, Marsilio editori, Venezia 1983, p. 14).

È la grande utopia dell'Occidente. La gemma non ancora sbocciata del controllo sociale.

In essa, tutto il tessuto delle relazioni umane sembra destinato a permearsi di un flusso di potere onnisciente ed onnicomprensivo, di una sorta di positività senza spazi vuoti, senza esterno. Non si fanno però i conti con la dimensione dinamica della lotta permanente, in cui non vi è mai uno scontro frontale tra due entità esterne l'una all'altra, ma una lotta trasversale e mobile, dove tutto si converte nella polarità opposta, perché le forze sono prima di tutto relazionali ed è quindi impossibile pensarle come entità singolari, chiuse, indipendenti l'una dall'altra. Così, le relazioni di potere finiscono per intrecciarsi alle resistenze in una lotta, in un "agonismo" permanente, che è insieme incitamento reciproco. Solo all'interno di questa lotta il potere sviluppa le sue strategie, converte se stesso laddove incontra ostacoli, sviluppa nuove tecniche per estendersi, sperimenta i suoi limiti e la sua fallibilità. Sono proprio i punti di resistenza, le anomalie, che permettono al potere di diffondersi, ma allo stesso tempo sono anche la fonte della sua instabilità, della sua perpetua precarietà.

Secondo Foucault,

"l'esistenza di una forma di opposizione al potere risulta una condizione fondamentale del modo in cui esso opera. È attraverso l'articolazione di punti di resistenza che il potere si diffonde su tutto il campo sociale. Ma naturalmente è anche attraverso l'opposizione ad esso che il potere è costantemente sfidato. La resistenza è sia un elemento del funzionamento del potere che la fonte del suo perpetuo disordine"

(Dreyfus-Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, op. cit., p. 172).

Più che con le utopie, oggi è tuttavia tempo di confrontarsi con le eterotopie. Se è pur vero che le prime, essendo prive di un luogo reale, dischiudono spazi meravigliosi e consolatori, è solo nelle seconde che si cela il segreto di una risposta alternativa e concreta. Le eterotopie inquietano, perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano i nomi comuni, perché devastano anzitempo la "sintassi" e non soltanto quella delle frasi, ma anche quella meno manifesta che fa "tenere assieme" le parole e le cose. Un rischio al quale bisogna esporsi affinché la negazione torni ad affermare. (continua 1.7)