2.8 La risposta impossibile: dividualità e virtualità
L'esercizio del controllo sull'alea della vita genera fenomeni di resistenza che frammentano l'identità del soggetto, ridefinendo anche gli spazi di abitabilità. L'approdo è forse il metaverso?
(se non letto prima, si rimanda al post "2.7 Potenzialità e rischi dell'audiovisivo")
Due sono i modi secondo cui può essere letta l'apparente disgiunzione del tempo-continuum: da una parte risulta funzionale al controllo, perché la scansione dell'organico offre l'illusione di visualizzare distintamente la processualità dello sviluppo; dall'altra - a causa della sua stessa modalità d'apertura (o meglio, di dischiusura, perché già un passo oltre la nostra consapevolezza) - impedisce l'elaborazione di una risposta immediata per prevenire efficacemente l'atto trasgressivo.
Come venire a capo di una simile contraddizione?
Il controllo del ritmo della vita tende ormai a identificarsi col controllo della vita stessa. Il fatto che la dimensione del tempo non produttivo sia sempre più investita da forme indotte di autocontrollo, finalizzate a compartimentare desideri, emozioni, bisogni, non deve sorprendere: l'otium è da sempre il luogo che evoca e predispone uno spazio di attenzione al sé. Emerge lampante, usando le parole di Ubaldo Fadini, il "passaggio da un modo di produzione fordista, centrato sull'operaio di fabbrica, a uno post-fordista, teso allo sfruttamento sociale della forza lavoro; da una cultura disciplinare (propria del fordismo), a una basata sull'affermazione del controllo sociale più sofisticato (vera e propria anima della cultura post-fordista)" (U. Fadini, Tempo ed esperienza, in Aa.Vv., Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, Feltrinelli, Milano 2001, p. 311).
Il tempo normativo non può infatti tollerare gli spazi dell'otium, autentici buchi neri del controllo; la sua invasività, d'altra parte, genera lacerazioni che portano a crisi di incomunicabilità: mettendo in discussione l'inevitabile relazione dell'essere con l'altro da sé, inducono all'aggressiva manifestazione di un sentire che si palesa sotto la maschera dell'alterità. Nella storia occidentale, infatti, ha preso forza sempre maggiore una dimensione "sociale" della temporalità che punta a regolare l'insieme delle relazioni produttive, amministrative e in genere sociali, in modo tale che chiunque sia in grado di stabilire come la temporalità conferisca ritmo e forma alle pratiche pubbliche. "L'uomo che ha la virtù della puntualità è l'eroe di questa forza pubblica della temporalità" (F. Papi, Figure del tempo, Mimesis IF, Milano 2002, p. 44). L'esperienza qualitativa della malattia, la poetica delle varie forme della memoria privata e nascosta, il procedere simbolico e a singhiozzo del viaggio, sono tutte forme temporali venute a mancare nella società contemporanea (il tempo pubblico, d'altra parte, non è più solo una regola spaziale che normalizza i comportamenti, ma anche la forma dominante della percezione della temporalità, in quanto apriori dell'armonia della propria esperienza individuale col mondo).
Esprimendo la relazione fondamentale tra un qualsiasi polo soggettivo e l'oggetto-mondo, la produzione dominante della temporalità è data dagli effetti senza termine dell'apparato d'informazione e della comunicazione. Molteplici le cause: dall'assoluta mancanza d'intervalli nella comunicazione, alla trasformazione di ogni singolo accadimento nella medesima forma di evento comunicativo; dai mezzi esclusivi attraverso cui la comunicazione viene veicolata provocando effetti solidali e creando le condizioni dello scambio discorsivo, all'oscurameno delle possibili relazioni temporali degli eventi, sia nell'ordine del passato (in quanto esercizio di spiegazione e riconoscimento intellettuale), sia del futuro, che contribuisce a stilizzare la prassi quotidiana grazie anche e soprattutto alla coscienza anticipatrice del sognare-a-occhi-aperti.
"Il mondo si configura come insieme d'identità sempre nuove e diverse, il che stimola certamente il gioco delle suggestioni e delle impressioni, poiché ogni informazione si offre alla sensibilità e all'emozione, ma annulla la dimensione della durata temporale come condizione necessaria per dare luogo a spiegazioni coordinate più complesse, ciascuna dislocata nel suo luogo: o il luogo dell'evento è trovabile solo nella dimensione temporale della durata, altrimenti il luogo è tutto nell'apparizione sensibile"
(ibidem, p.45).
Ecco dunque il punto di svolta nella percezione della temporalità, paventato precedentemente da Husserl: l'idea che, nell'istante propriamente percettivo, cioè nell'ora, possa condensarsi una successione di rappresentazioni mediante un atto unico e indivisibile, portando a privilegiare il presente come unica modalità di comprensione del vissuto. Ritenzioni e protensioni si annullano nello spessore della loro profondità, abbandonando il soggetto alla mera casualità dell'ora, ove a darsi è un presente sempre nuovo, ma anche incapace di passare. Il senso dell'informazione "percepita", al contrario, matura da uno strato minimo di deposito temporale, grazie al quale è possibile invenire forme di problematizzazione degli eventi.
"Se, al contrario, l'evento è solo la novità, esso tende alla sensazione, all'impressione, alla centralità contingente e assoluta della soggettività propria dello spettacolo, che appunto vuol cogliere quei momenti dell'esperienza e non altri"
(ibidem, p. 46).
La società del controllo, suo malgrado, risulta fondata sulla visione puntuale: l'idea di esser in grado di afferrare il continuum finisce per inibire ogni possibile effetto cumulativo, sia sul piano delle ritenzioni che delle protensioni. Il soggetto è così condannato a vivere in un eterno presente, venendo svuotato del suo spessore identitario. Provocato da questa condizione, l'inaridimento sociale genera atteggiamenti di resistenza che accentuano la duplicità fra essere e apparire, disegnando la scena di uno spettacolo pronto a rinnovarsi di continuo oltre le quinte. Alla percezione si danno in pasto frammenti pronti a sedurre di volta in volta l'attenzione e l'esperienza, rinnovando l'illusione di un "sempre nuovo inizio".
Che sia passiva (ad esempio, attraverso la televisione) o attiva (Internet), la comunicazione resta inevitabilmente condizionata dal medesimo effetto temporale: avviene una totalizzazione possessiva di ogni spazio circoscritto nella dimensione della comunicazione. Poiché la cura si è contratta nel solo presente, la coscienza che ne è riflesso non può rappresentare alcun luogo di trascendenza rispetto all'esperienza. La memoria stessa, laddove riaffiora, è per puro caso: non è funzionale all'essere che si è. Appare infatti un disomogeneo esercizio di devianza, che può prendere forma solo nella dimensione dello spettacolo, cioè lontano da sé, nel già accaduto ma egualmente irreale, suscitando sentimenti forti che svaniscono tuttavia col concludersi di ciò che accade, senza possibilità di abitare lo spazio della propria identificazione (data la disomogeneità fra evento della memoria e prassi).
"Il futuro appartiene prevalentemente ai giochi visionari e alle predicazioni fantasiose che, o sono percepite come finzioni e suscitano divertimento e incredulità, o diventano estrinseci supplementi di senso in un tempo reso 'invisibile' dalla forma retorica del discorso attraverso il quale si presenta. Questa dimensione circoscrive anche le possibilità di giudizio che, oltre alla natura psicologica e alla loro forma logica, nascono sempre da un campo d'interesse"
(ibidem, p. 48).
Osservando meglio la funzione delle tecnologie contemporanee, alimentate dall'ideale panoptico/synoptico, non possiamo più pensare i media come semplici mezzi di distribuzione e circolazione d'informazione neutra.
Se utopica e a tratti superficiale suona ormai l'affermazione di William S. Burroughs (WBS Interview 1961, Geografie del controllo, Millepiani, Milano 2001, p. 9), secondo cui "il principale strumento di monopolio e controllo che ostacola l'espansione della coscienza è il limite imposto dalla parola, che controlla le sensazioni percepite con la mente e le impressioni sensoriali di colui che le ospita", occorre d'altra parte porsi oltre la tradizionale distinzione fra "contenuto" e "contenente". Secondo questo vecchio schema riduzionista, risulta impossibile elaborare una soluzione efficace alla sfida del controllo e della trasgressione, se non proponendo semplicisticamente di staccarsi dal modello delle parole. "Ciò può essere realizzato - incalza ancora Burroughs (op.cit., p.9) - sostituendo alle parole lettere, nozioni e concetti verbali. Altri modi d'espressione, per esempio il colore. Possiamo tradurre parole e lettere in colore. In altre parole l'uomo deve rifuggire le forme verbali per giungere alla coscienza, che è lì a portata di mano per essere percepita".
Con buona pace di Burroughs, i media non sono solo veicoli di contenuto, ma producono rapporti sociali in virtù della loro forma e della loro modalità operativa: sfruttamento e consumo, ma anche astrazione, separazione, abolizione dello scambio.
È stato proprio Gilles Deleuze (Postscript on societies of Control, n. October, anno 59, 1992, n.4) a riconoscere come oggi le forme del controllo non siano più coercitive, mirando all'individualizzazione mediante le modalità di potere disciplinare analizzate da Foucault, ma operino per 'dividualizzazione', per frammentazione delle identità anziché per loro formazione. Mentre il potere disciplinare plasma un individuo fuori dalle componenti personali dell'individuo, il controllo è attivo già a livello del pre-personale: agisce attraverso un differimento costante dell'identità, per mezzo di una pos-posizione temporale continua. Deleuze ha sostenuto che le strutture delle relazioni di potere fossero in una fase di slittamento dai modelli basati sugli spazi chiusi, in funzione dei quali il corpo si muove e nei quali il corpo è costretto a conformarsi alle norme dettate dallo spazio stesso.
Verso quale forma stiamo slittando, dunque? L'era del web e del metaverso sono forse il trionfo dello spazio aperto? (continua 2.9)