Tesori nascosti (4/7)

27.02.2022

Quando visitatori dalla pelle più chiara mettono piede sull'isola, gli abitanti della costa di Madang li riconoscono come pikinini, "figli di Kulabob". Sono loro che, una volta ancora, provano a modificare la Legge di Manu(p) sviluppando nuove tecniche di lavoro destinate a cambiare i costumi tradizionali.

Un'isola d'oro

Lo dimostra, in particolare, la volontà delle multinazionali di estrarre oro, argento e rame lungo il fiume Frieda, affluente del Sepik dov'è previsto lo sfruttamento di una titanica miniera di 16mila ettari: la più estesa in PNG e una delle prime dieci al mondo, il cui valore estrattivo viene stimato attorno a un miliardo e mezzo di dollari all'anno, per oltre 30 anni. Ripetuti progetti sono stati avanzati dal 2010 a oggi, incontrando sempre la ferma opposizione degli abitanti locali, ma l'entità delle risorse in gioco rappresenta un tesoro inestimabile cui il mercato non è disposto a rinunciare. Periodicamente tornano così a essere lanciate campagne di persuasione lungo i villaggi del fiume.

L'impatto devastante su ambiente e vita dei locali è stato documentato dal regista italiano Christian Nicoletta (www.reassemblage.it), finendo per essere denunciato nel 2020 anche da 10 inviati delle Nazioni Unite, i quali hanno manifestato la propria preoccupazione ai governi di PNG, Australia, Cina e Canada coinvolti nel progetto. Una delle maggiori criticità, per gli analisti del Judith Neilson Institute specializzato in giornalismo investigativo, riguarda la proposta di costruzione di una diga destinata a immagazzinare scarti della miniera, tali da raggiungere un'altezza di 1.500 metri e mettere così a repentaglio i piccoli villaggi lungo il corso d'acqua. I dati sulla possibile tenuta della diga non sono mai stati resi pubblici, né condivisi con le comunità direttamente coinvolte. Il sito individuato, inoltre, è a forte rischio sismico (Plan for largest mine in Papua New Guinea history appears to disregard human rights, di Lyanne Togiba & Ben Doherty, The Guardian, 2020).

Nel giugno 2021 i capi di 28 Haus Tambaran, le tipiche costruzioni indigene che regolamentano la vita collettiva, hanno formalmente dichiarato che le 78mila persone da loro rappresentate sono in disaccordo con qualsiasi progetto di apertura della miniera e di costruzione della diga, non accettando di conseguenza interventi supplementari come la creazione di una centrale idroelettrica, la rete di distribuzione ad essa connessa, oltre che strade, un nuovo aeroporto e il potenziamento dei porti fluviali d'accesso. La grande protesta del Sepik è diventata l'emblema delle lotte civili consolidatesi in Papua Nuova Guinea negli anni '80 del secolo scorso, quando le multinazionali del settore minerario hanno moltiplicato i propri progetti di sfruttamento sull'intero territorio. Un territorio, occorre rimarcare, che conserva il 7% dell'intera biodiversità del pianeta, pur rappresentando appena l'1% della superficie emersa (Value of nature: Papua New Guinea's biodiversity a win-win for people and planet, UNDP Papua New Guinea, 2021).

Capitale dormiente

Come evidenziato in uno studio di Elizabeth McKinnon, co-CEO di Environmental Justice Australia (The environmental effects of mining waste disposal at Lihir Gold Mine, Papua New Guinea, 2002), l'isola viene considerata un immenso giacimento inerte perché dispone della terza più grande riserva d'oro al mondo, senza avere un impianto legislativo né un economia interna in grado di opporsi efficacemente alle pretese del mercato internazionale. "Le sue ricche riserve naturali forniscono le fondamenta di un'economia marcatamente dualistica, nella quale domina un settore minerario dinamico e a capitale intensivo, nonostante l'85% della popolazione derivi il proprio sostentamento dall'agricoltura, basata su tecniche di coltivazione a bassa produttività. La gran parte dei 4 milioni di abitanti (8.2 nel 2021, ndr) permane così nel settore altamente frammentato e non monetizzabile della sussistenza".

L'atomizzazione del cosiddetto "capitale umano" non è che un riflesso della discontinuità morfologica del territorio, rispetto al quale la rete fluviale rappresenta ancora l'unica e più sicura via di collegamento con le comunità o le località più remote. Il Sepik, in particolare, risulta il fiume più lungo dell'isola e il terzo per volume delle acque, dopo il Fly e il Mamberano (risalito negli ultimi anni dall'italiano Claudio Pozzati, fondatore di Argonauti Explorers). Una sorta di autostrada blu.

Stabilizzatosi solo in epoca recente dagli effetti di una catastrofica alluvione risalente a circa 8.000 anni fa, conserva una delle tradizioni culturali più ricche di tutta l'Oceania e, come provato dall'antropologo svizzero Christian Kauffmann (Sepik Heritage. Tradition and Change in Papua New Guinea, Pacific Arts n.6, 1992, pp 75-78), il retaggio della sua arte dell'intaglio, della pittura, della tecnica di lavorazione della ceramica e della musica si è diffuso a est sino alle isole Vanuatu, Salomone e in Nuova Caledonia

Antico dinamismo economico

Per lo studioso elvetico è soprattutto la ceramica della Nuova Guinea settentrionale a evidenziare uno sviluppo e una diversificazione del Sepik di molto antecedente la dispersione della cultura Lapita nel Pacifico (con un presunto arrivo nella Melanesia orientale fra il 1.500 e l'800 a.C.), inducendolo a ipotizzare una possibile e antecedente migrazione dall'Indonesia sull'isola attorno al 5.500 a.C. Le grandi ondate civilizzatrici dell'area sarebbero dunque almeno due, ma non bisogna dimenticare che segni di terra bruciata per eventuali coltivazioni sono stati individuati sull'isola in strati del terreno che risalgono almeno a 35mila anni fa, mentre i primi strumenti da lavoro in pietra, emersi sul lato nord della Penisola di Huon nella Provincia di Morobe, a 40mila anni fa (History of agricolture in Papua New Guinea, Richard Michael Bourke, 2009). Alcuni resti di semi di noce galip (specie Canarium) emersi dal bacino del Sepik sono stati datati a 17mila anni fa e sembra siano stati poi commerciati nel resto dell'isola e degli arcipelaghi. Anche la noce edibile del pandano (Pandanus antaresensi) pare sia stata usata come bene di scambio per circa 30mila anni, mentre sono state individuate prove che gli abitanti locali sfruttassero le piante di taro selvatico molto prima dell'inizio ufficiale dell'agricoltura. L'amido di taro, infatti, è stato trovato su strumenti di pietra dell'isola di Buka utilizzati almeno 28mila anni fa. Appena 5000 anni dopo risulta già avviato inoltre il commercio di ossidiana, accanto a quello di animali selvatici come il cuscus e il bandicoot.

Se alle conclusioni di Kauffmann e Bourke vengono poi integrati i risultati delle ricerche dell'archeologa Pamela Swadling, secondo cui un'espansione austronesiana nel Pacifico avrebbe preso piede almeno a partire dal 6.000 a.C. (Changing shorelines and cultural orientations in the Sepik-Ramu, Papua New Guinea, in World Archaeology, vol. 29 (1), 1997, pp 1-14), è possibile comprendere perché l'area del Sepik sia considerata dai principali studiosi internazionali la prima e autentica culla di contaminazione culturale di Papua. Un ecosistema ricco e fragile, dove l'attività dell'uomo è riuscita per millenni ad armonizzarsi con l'ambiente circostante, a differenza di quanto accaduto negli ultimi 40 anni, salvo rare eccezioni.

Resilienza agricola

Una di queste, ad esempio, riguarda la raccolta sostenibile delle uova di coccodrillo grazie al programma Sepik Wetlands Management Initiative (SWMI), avviato nel 1998 in una cinquantina di villaggi di Ambuti, provincia orientale del Sepik. Precedentemente distrutte senza cura alcuna, a causa delle frequenti operazioni di pulizia del terreno per ragioni di competitività agricola, oggi le uova sono diventate una fonte di reddito per le comunità locali senza impattare sulla popolazione dei coccodrilli d'acqua dolce (Crocodylus novaeguineae) e salata (Crocodylus porosus): due degli animali più sacri per le tradizioni locali, cui sono dedicati i riti di scarificazione dei più giovani.

In risposta alla sfida estrattiva che interessa inoltre giacimenti off-shore di petrolio, gas e impianti di energia blu, il governo del Primo Ministro James Marape si è proposto di fare del Paese "la cesta del cibo per l'Asia". Un'indagine condotta da Mervyn Piesse, research manager per Future Directions International (Papua New Guinean Agriculture: Signi cant Opportunity and Much Peril, 2019), attesta che ancora nel 2019 il 70% del cibo prodotto nei villaggi di Papua Nuova Guinea consisteva semplicemente in patata dolce. Nessuna sorpresa, allora, se i costi d'importazione di altre tipologie agricole risultino da anni in forte crescita, con una marcata predominanza per il riso (225 milioni di dollari all'anno, su una spesa totale di 850 milioni). Investire nella coltivazione di palma da olio, caffé, cocco, ma anche riso e grano - onde ovviare all'agricoltura di sussistenza, ma stravolgendo al contempo una dieta che, da 10.000 anni almeno, si basa su colture locali come igname, taro, sago e banana - appare un rischio dalle pesanti conseguenze.

Sino a oggi, infatti, l'economia di sussistenza ha preservato Papua dalle crisi globali. A rimarcarlo, anche l'Alto Commissario della Papua Nuova Guinea per l'Australia, Charles Lepani, in coincidenza della pesante crisi del 2008 inerente il prezzo dei prodotti agricoli: "un forte settore di sussistenza e il wantok (un sistema informale di welfare basato sui rapporti familiari e tribali) forniscono a molte persone un surrogato del welfare sociale. La resilienza della maggioranza rurale è emersa di recente quando bruschi incrementi nei prezzi agricoli hanno causato considerevoli emergenze in molte parti del mondo. Nonostante questo, la gran parte della popolazione rurale della Papua Nuova Guinea è stata risparmiata dall'impatto peggiore delle crisi proprio in virtù della solida base di sussistenza agricola e delle entrate prodotte attraverso l'export dei propri raccolti".