Italia e Papua, destini incrociati (6/7)

02.01.2023

In gran parte inesplorata sino alla seconda metà del XIX secolo, ma dalla mappatura tuttora complessa per i limiti del sistema satellitare "Papua Atlas" ideato dal Center for International Forest Research (CIFOR), la seconda più grande isola al mondo ha iniziato a essere conosciuta grazie soprattutto al contributo italiano.

Per quanto la piattaforma open-access stia producendo una mole di dati mai vista prima dell'avvio del progetto nel 2019, con l'obiettivo di mappare in modo interattivo perdite di foresta, creazione di nuove piantagioni, sviluppo di siti minerari o infrastrutture stradali, il suo ambito di applicazione resta tuttora limitato alla sola parte indonesiana dell'isola. A pochi anni dall'entrata in funzione, appare in realtà uno strumento pensato più per armonizzare lo sviluppo produttivo, che per contrastarlo: ha fornito indicazioni su come seguire il miglior tracciato della Trans-Papua Highway, autostrada di 4.330 chilometri che collega la cittadina di Sarong nel Nord-Ovest a Merauke nel Sud-Est lungo buona parte del confine con Papua Nuova Guinea, giustificando la deforestazione di alcuni degli ambienti più vergini di Papua. Supporta la completa elettrificazione del territorio. Mostra quali punti siano più appropriati per costruire i porti necessari alla Nuova Rete marittima della Via della Seta. Usando rilievi satellitari, inoltre, non è in grado di generare una biomappatura accurata, trascurando possibili unicità non ancora studiate dall'uomo. "Al di là della conservazione - ha pubblicamente riconosciuto Mohammad Agus Salim, sviluppatore dell'Atlante - serve alle autorità locali per la pianificazione spaziale". Non è dunque casuale la sua mancata integrazione con i progetti di salvaguardia della metà orientale dell'isola.

Arrivano gli italiani

Avvistata nel 1521 e citata nel 1524 dal vicentino Antonio Pigafetta (Relazione del primo viaggio intorno al mondo), quindi dal piemontese Carlo Vidua nel 1830 (Narrazione viaggio alla Nuova Guinea), cui seguì fra il 1852 e il 1855 la spedizione a Woodlark del Seminario Lombardo per le Missioni Estere, fu il genovese Luigi Maria D'Albertis a spingersi - primo fra gli europei - all'interno di Papua.


Se Vidua può vantare il primo baratto italiano con le tribù papuane, avendo ottenuto un arco e molte frecce per alcune collanine di corallo acquistate a 75 fiorini, il suo sbarco fu troppo breve per lasciare un segno nella storia dell'esplorazione. L'esperienza viene raccontata nei taccuini di viaggio Note des objets d'echange pour les Papous achetés à Amboine en partant pour la Nouvelle Guinée, compilati dopo aver avuto la possibilità di toccare terra tramite la goletta olandese "L'Iris": un agile scafo da perlustrazione, su cui si sostituisce addirittura al capitano Jan Hendrik De Bondyck-Bastiaanse. "Alcune delle frecce - annota - hanno per punta il becco o le ossa del casuari, uccello comune in questi contorni"; oltre ad esse si procura poi un teschio "pensando che ne' musei d'Europa le teste di questa razza Papoa sono poco comuni". Lungo la via del ritorno decide di sbarcare anche sull'isola indonesiana di Sulawesi, ma scivola con una gamba nella solfatara di Lahendon e, nonostante la pronta assistenza degli olandesi, muore a bordo della nave il 25 dicembre del 1830. Poco più che un'incursione, per giunta fatale, oggi ricordata anche attraverso un'esposizione permanente nel museo civico del suo Comune natale, Casale Monferrato.


La svolta del genovese

Luigi Maria D'Albertis compì invece cinque spedizioni tra il 1872 e il 1878, inizialmente insieme al grande botanico fiorentino Odoardo Beccari nella parte occidentale dell'isola, in seguito risalendo e mappando il fiume Fly nell'attuale Papua Nuova Guinea. Portò in Europa grandi quantità di reperti naturalistici ed etnografici, ottenuti talvolta con metodi violenti, per poi raccontare le sue avventure nel fondamentale libro Alla Nuova Guinea: ciò che ho veduto e ciò che ho fatto, pubblicato sia in italiano che in inglese nel 1880 (di cui la biblioteca del Pime conserva una copia originale).


"Però, credere senza vedere, né volevo, né potevo. - scriveva D'Albertis nel 1875 - Ma come negare ciò che tanti asserivano? Macfarlane, non soddisfatto dell'esplorazione del Maicussar, pensò di esplorare un altro punto della Nuova Guinea, e desiderando di poter penetrare nell'interno del paese per una delle vie più facili, cioè per mezzo di qualche fiume, scelse il Fiume Fly. Egli aveva anzi in animo di tentare questa via sullo scorcio di novembre. Non spenderò parole per dire quanto agognassi l'opportunità di essere anch'io della partita, e come accettassi con trasporto e gratitudine l'invito che ricevetti di farne parte, e come dimenticassi anche il poco buon stato di mia salute".


Alla prima esplorazione del "Fiume delle Mosche" a bordo dell'Ellangowan, ne sarebbe seguita una seconda sulla Neva nel 1876, accompagnata dal macchinista australiano Lawrence Hargrave, famoso per i suoi prototipi d'aereo in miniatura (sulle cui dimensioni i fratelli Wright avrebbero poi costruito i primi aerei volanti della storia). Vero e proprio genio dell'aviazione, il suo ritratto è finito persino sulle banconote da 20 dollari australiani, ma in Italia resta un personaggio quasi sconosciuto, fatto salva la testimonianza diretta che ne dà proprio il D'Albertis nei suoi scritti. Alla spedizione con Hargrave ne sarebbe seguita ancora una, sempre sul Fly, nel 1877.


"Col passare del tempo - ricorda Anna D'Albertis, discendente dell'esploratore genovese che ha curato una versione ridotta delle sue memorie (Liberodiscrivere, 2010) - le sue conoscenze, praticamente da autodidatta, si approfondirono sempre più, e diventò un esperto naturalista, zoologo, botanico, antropologo ed etnologo. Delle 505 specie di uccelli portate dalla Nuova Guinea, 50 erano ancora sconosciute, per non parlare degli insetti, dei serpenti e delle piante".


Oggi questi preziosissimi reperti sono presenti in diversi musei italiani ed esteri, in primis a Genova presso il Castello D'Albertis - Museo delle Culture del Mondo e al Museo di Storia Naturale "Giacomo Doria". Le imprese dell'esploratore italiano continuano a essere un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia avvicinare Papua, tant'è che lo stesso stimato paleontologo Tim Flannery ha ammesso di essersi ispirato a lui per le sue prime missioni sull'isola, descritte poi nel libro L'Ultima Tribù (Corbaccio, 2000). "Mi bai throwim way lag nau (sto cominciando il mio viaggio, nel pidgin della Nuova Guinea) - spiega lo studioso australiano - ha ancora un significato letterale, poiché anche oggi camminare è l'unico modo per viaggiare in gran parte della Nuova Guinea".


La nuova etnografia italiana

Poco dopo D'Albertis, fra il 1889 e il 1897, giunse Lamberto Loria, nato ad Alessandria d'Egitto da una famiglia italiana di origini ebree. Come ricorda Fabiana Dimpflmeier, autrice del saggio Il giro lungo di Lamberto Loria. Le origini papuane dell'etnografia italiana (CISU, 2020), la sua figura ha iniziato a essere studiata solo agli inizi degli anni 2000, rimanendo praticamente ignorata dalla storiografia per quasi un secolo dalla morte, avvenuta nel 1913. "Eppure aveva compiuto lunghi anni di ricerca sul campo in Melanesia - riconosce Dimpflmeier - che avrebbero potuto farlo diventare un Malinowski italiano; aveva fondato a Firenze il primo museo nazionale di etnografia regionale, organizzato a Roma il mitico congresso di Etnografia del 1911 e la mostra dalle cui collezioni sarebbe sorto (molti decenni dopo, com'è noto) il museo delle Arti e tradizioni popolari; così come aveva fondato la rivista Lares, portavoce, per quasi tutto il Novecento, della tradizione filologico-folklorica italiana". Il non aver lasciato libri importanti si è rivelato fatale per quest'infaticabile esploratore, capace tuttavia di arricchire enormemente le collezioni dei musei italiani.


Arrivato a Port Moresby, futura capitale di Papua Nuova Guinea, "quattro sono i percorsi che sembrano prospettarglisi: seguire il fiume La-roki (o Laloki), perlustrare la zona del monte Yule, recarsi presso il Vanapa River; oppure risalire il Kemp Welch, fino ad allora quasi del tutto inesplorato. Quest'ultima opzione lo attira particolarmente, e decide di intraprendere una missione esplorativa in quelle zone" (Fabiana Dimpflmeier, Itinerari e tappe di Lamberto Loria nella Nuova Guinea Britannica, in Lares, 2014/1). Tornato pochi mesi in Italia per onorare la morte della sorella, riparte alla volta dell'isola su un piroscafo della British India, intenzionato a esplorare la zona di Iarumi, sulle montagne oltre le sorgenti del fiume Hunter. Organizza poi due campi base sul Monte Lakumi e sul Monte Bride, riuscendo infine a scalare il Monte Obree della catena dell'Owen-Stanley: sarà il primo fra gli europei. Punta quindi le tribù dei Maghibiri sul versante interno della catena dell'Astrolabe, spingendosi sempre più a est, nell'area popolata dai Moroca. Farà visita in seguito ai missionari del Sacro Cuore di Gesù, stanziati sull'isola di Yule, ma solo per breve tempo. L'obiettivo è già un altro: veleggiare lungo la costa sud-est fino all'isola di Mailu, per poi risalire a tappe. A questa esplorazione seguirà quella della baia di Milne. Gli itinerari calcati appaiono innumerevoli, quasi senza sosta, ma mossi sempre più dall'interesse per gli usi delle popolazioni locali. Loria ha infatti un'idea ben precisa, che sfortunatamente non riuscirà mai a realizzare. "Io poi potrò fare un libro paragonando i costumi papuani che sono a mia conoscenza: ossia quelli di Maghebiri, Innawi, Rigo, Bula'a, Kamali, Mailu,Velerupu, Logea e Dobu - in tutto 9 tribù sparse quasi ad egual distanza fra l'isola di Yule e l'arcipelago di D'Entrecasteaux. Ma di ciò avrò tempo di pensare in Italia e consultarmi con Flaminio". Un proposito rimasto sì sulla carta, ma giusto quella ingiallita e frammentata degli appunti di viaggio. Con lui si chiude l'epoca storica delle prime grandi esplorazioni italiane.


Papua, però, non fu solo meta di viaggi avventurosi. Sarebbe potuta divenire persino una colonia penale italiana, destinata in particolare agli ex-soldati borbonici e ai briganti del Sud. Nel 1869 il governo Menabrea affidò all'esploratore Giovanni Emilio Cerruti una missione privata di ricognizione, concretizzatasi nella stipula di contratti di occupazione con le autorità delle isolette di Bacan, Kai e Aru, non lontane dalla costa occidentale. Temendo complicazioni con i domini coloniali olandesi e britannici, l'Italia lasciò infine cadere tutto.