3.9 In cerca del non-luogo, l'utopia

03.02.2023

Sostenuta dall'idea di una mappatura trasversale e totale, la società del controllo vive nell'illusione di disinnescare il potere sovversivo dell'Altrove. Per quanto tracciabile e sorvegliabile, il confine resta però una soglia teoretica permeabile

(se non letto prima, si rimanda al post "3.8 Limiti della democrazia fra segreto e informazione"

Partire per un altrove è forse la dimostrazione più universale e visibile dell'anelito utopico dell'uomo, mosso dall'idea di una (contro)società finalmente libera da gioghi e sofferenze. Una società senz'ombra di dubbio migliore di quella presente.

L'elaborazione di audaci utopie coincide non a caso con l'era delle grandi scoperte geografiche e dell'affermazione del soggetto come attore della Storia, ma, soprattutto, come padrone del proprio destino. Che l'utopia sia oggi accolta con condiscendenza, se non addirittura con derisione e sprezzo, non dipende però dal considerarla irrimediabilmene affetta da un principio di corruzione latente, quanto dalle condizioni materiali stesse della nostra società, non più in grado di alimentarla. Il fenomeno delle migrazioni seriali, così tipico dell'era del neoliberismo, manifesta il totale svuotamento dell'anelito utopico della partenza per l'Altrove, a favore di una mera redistribuzione dell'uomo-merce e del suo habitat-recinto. Intesa nell'accezione classica, l'utopia appare perciò una forma di trasgressione storicamente superata e dissonante rispetto alla sensibilità dei tempi.

I dizionari convergono sull'origine del sostantivo dal greco topos, che significa luogo, in combinazione con due prefissi riconducibili però a un significato esaustivo: eu, che esprime la buona qualità, e ou, cioè la negazione. Utopia sta dunque a indicare contemporaneamente "il buon posto" - in un certo senso il "luogo della felicità" - e "il luogo che non esiste", il "luogo che non è in nessun posto", privo di un'esistenza geografica reale.

Un'ambivalenza che, in parte, giustifica l'atteggiamento ironico con cui vengono accolti i progetti "utopistici", raramente affrontati e controbattuti punto su punto, perché rigettati in prima battuta con una risata di scherno: dietro questa posa superficiale e indisponente possiamo però ritrovare la viscerale paura di un confronto dai risvolti inevitabilmente radicali, sovversivi, i quali non chiedono di mettere in gioco differenti modalità di approccio a una problematica, bensì la Norma stessa che fonda il proprio tempo. Occorre allora guardare al "procedimento" attraverso cui un'utopia prende forma per riuscire a pensare nuovamente il non-risolto, i possibili disseminati nella nostra società, prendendo le distanze da chi sostiene che l'utopia sia solo l'anticamera del totalitarismo (nello scritto Utòpia di Thomas More, ciascuno è il benvenuto sull'isola di Utopia alla sola condizione di accettate e rispettare le regole).

Come più volte evidenzia Foucault nei suoi studi, l'utopia non è però un futuro, ma un altrove: ci colloca sul piano spaziale staccandoci dalle illusioni del tempo. Viene perciò da chiedersi: qual è oggi il nostro altrove, alla luce del fatto che l'intero pianeta è stato cartografato o è comunque cartografabile? Una domanda tanto ingenua quanto problematica, perché prigioniera di una cecità teoretica che neppure le tecnologie più sofisticate sono in grado di curare. Si chiede acutamente Thierry Paquot ne L'utopia (Mimesis Eterotopie, Milano 2002, p. 14):

"La posta consiste forse nella delimitazione di uno spazio senza nome? O non concerne in maggior misura il tempo? L'utopia non deve forse combinarsi con l'u-cronia, in una qualsiasi science fiction che ci catapulti secoli addietro o millenni in avanti in un "non tempo" o in un "fuori-dal-tempo", ma in un luogo che riunisca i diversi tempi e permetta di uscirne e di ritmarli secondo i nostri desideri?".

Per Foucault il problema non si pone affatto. Abbiamo già visto come il tempo, dal suo punto di vista (profondamente debitore della metafisica occidentale), altro non sia che una modalità di vivere la percezione dello spazio. È sufficiente osservare gli effetti euristici prodotti dalla televisione per rendersi conto di come sia sempre più difficile immaginare qualcosa di radicalmente differente: tutto sembra già visto, tutto è costantemente presente, a tal punto che possiamo tornare da una destinazione prima ancora di aver lasciato il divano di casa. Per descriversi, raccontarsi, e a maggior ragione prender forma, l'utopia ha bisogno di liberarsi dalla predestinazione della storia, rivendicando non tanto il libero arbitrio, quanto la libertà di agire e, di conseguenza, quella di pensare e di pensare altrimenti. Tutto questo, senza dimenticar mai di essere il frutto di una determinata e "incarnata" pratica di vita.

"L'utopia non è il risultato di un qualsiasi mercanteggiare politico. Come aveva chiarito Ernst Bloch nel suo 'Spirito dell'Utopia' redatto durante la Prima guerra mondiale, accompagna la scoperta di sé nell'esperienza della creazione. La musica, la pittura, l'arte in generale, permettono questo superamento che esprime l'impossibile alfine realizzato. Questo sempre-più-lontano-nella-conoscenza-di-sé, questo avvicinamento del domani di sé, non dipende da un'azione collettiva, ma affonda le proprie radici nel duplice movimento della rivolta e della speranza".

Paquot (op.cit., p. 19)

L'utopia, dunque, non ha per scopo la ricerca della Verità: è oltrepassamento di ogni possibile verità di cui essa rappresenta, nello stesso tempo, la realizzazione e la negazione. Perché la Verità, intesa come Legge, non può che produrre un fuorilegge e un trasgressore nel momento stesso della sua istituzione. Portando il discorso sul piano politico, Derrida (Sull'ospitalità, op. cit., pp. 66-68) riconosce a sua volta come la ferma delimitazione delle soglie, o delle frontiere, sia imprescindibile nel concetto di ospitalità: in primo luogo, tra il privato e il pubblico. Oggi, tuttavia, "il confine si trova preda d'una turbolenza giuridico-politica, in via di destrutturazione-ristrutturazione, a onta del diritto esistente e delle norme stabilite". È ancora il filosofo franco-algerino ad affermare:

"se la mia privacy, in origine inviolabile, è dunque costituita, e in maniera sempre più essenziale, interiore, dalla mia linea telefonica, ma anche dall'e-mail, dal fax, dall'accesso a Internet, l'intervento dello Stato viola l'inviolabile, laddove l'inviolabile immunità resta la condizione dell'ospitalità".

La minaccia all'integrità della privacy, intesa come ritaglio di un'oscurità, di un non-luogo nella superficie pienamente visibile della pubblicità, diviene allora una minaccia alla possibile integrità del sé, dell'ipseità. Ma questo non comporta solamente un'accentuazione del carattere xenofobo della società, come puntualizza ancora Derrida, bensì - e paradossalmente - il riconoscimento della sua imprescindibile permeabilità (continua 4.0)