2.6 Il tempo della trasgressione

18.01.2023

Successione e simultaneità stanno alla base della nostra percezione, ma ogni volta che cerchiamo di spiegare i fenomeni di durata, cadiamo facilmente in suggestioni geometrizzanti: liberarsi dei modelli di rappresentazione lineare è il primo passo per sottrarsi alla prevedibilità

(se non letto prima, si rimanda al post "2.5 La scrittura del tempo"

Per meglio cogliere l'interdipendenza di spazio e tempo nell'evento (avvento) della "trasgressione", Foucault ha suggerito di curare due diverse cecità che affligono l'uomo da secoli: "il modello lineare della parola (e in parte della scrittura), in cui tutti gli avvenimenti si succedono gli uni agli altri, salvo effetti di coincidenza e di sovrapposizione; e il modello del flusso di coscienza, il cui presente sfugge sempre a se stesso nell'apertura del futuro e nella ritenzione del passato" (M. Foucault, AS, op. cit., p. 222).

Il primo, di cui più avanti si dirà meglio, viene decostruito nello straordinario saggio Raymond Roussel; il secondo, invece, è posto in questione nell'Archeologia del Sapere rifacendosi agli studi husserliani dell'illuminante testo Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (E. Husserl, Franco Angeli Editori, Milano 1981). Foucault è qui infatti impegnato a dissodare i concetti di spazio e tempo, senza nutrire la pretesa di "superare le differenze", bensì di "analizzarle" e "differenziarle" ancor più, arrivando a evidenziare piani diversi di eventi possibili.

Il metodo adottato dal filosofo di Poitiers serve appunto a mostrare come "lo scomparire di una positività e l'emergere di un'altra implichino diversi tipi di trasformazioni" (M. Foucault, AS, op. cit., p.226). Queste ultime subentrano in un processo lineare senza apportare visibili cambiamenti (perché il cambiamento è "al tempo stesso contenente generale di tutti gli avvenimenti e principio astratto della loro successione", AS, op. cit., p. 226). Identico e continuo sono allora ciò che occorre trovare al termine della dissezione, affinché anch'essi appaiano semplice prodotto di una pratica discorsiva.

Muovendo dal piano spazio-temporale, Foucault sembra in grado di spiegare quale sia il funzionamento dei meccanismi discorsivi sotto la duplice ottica del controllo/trasgressione: a generare effetti consequenziali totalmente contrari alla regola non è che l'ossequio alla regola stessa.

"Uno o più di questi elementi (cioè gli elementi che costituiscono i fenomeni di continuità, di ritorno e di ripetizione, ndc) possono restare identici (conservare la stessa delimitazione, le stesse caratteristiche, le stesse strutture), pur appartenendo a differenti sistemi di dispersione e dipendendo da leggi di formazione diverse. Si possono perciò trovare fenomeni come questi: elementi che permangono attraverso varie e distinte positività, con forma e contenuto identici, ma con formazioni eterogenee [...]; elementi che si costituiscono, si modificano, si organizzano in una formazione discorsiva e, finalmente stabilizzati, figurano in un'altra; elementi che compaiono tardi, come una derivazione ultima in una formazione discorsiva, e che occupano una posizione primaria in un'ulteriore formazione, [...]; elementi che riappaiono dopo un periodo di disuso, di oblio o addirittura di invalidamento"

(ibidem, p. 228).

La teoria del controllo, atta a prevenire qualsivoglia forma di trasgressione, troverebbe fondamento in quella tesi di Franz Brentano (proveniente da Herbart e ripresa da Lotze) che Husserl discute proprio in apertura della sua opera dedicata al tempo: "l'idea, cioè, che per il coglimento di una successione di rappresentazioni (per esempio, a e b), sia necessario che queste ultime siano oggetti perfettamente simultanei di un sapere relazionante, che li riassume del tutto inscindibilmente in un atto unico e indivisibile" (E.Husserl, op.cit., p.56).

Tutte le rappresentazioni che stabiliscono un paragone sono pensabili in tal senso, al solo patto di considerarle produzioni di un sapere in grado di riunirle atemporalmente. Questo è il così detto "dogma della istantaneità di una totalità di coscienza", già criticato in passato da Stern. Husserl, però, prova a insinuare nel dogma molteplici dubbi, in virtù dei quali cominciamo a veder meglio in che modo la trasgressione prenda forma nello spazio, senza alterare il corso "naturale" del divenire.

Foucault fa eco al filosofo boemo affermando perentoriamente che "il tempo dei discorsi non è la traduzione del tempo oscuro del pensiero in una cronologia visibile" (M. Foucault, AS, op. cit. p. 134). A sua volta Husserl avanza la confutazione partendo dalla definizione di "oggetto temporale" ("con oggetti temporali in senso specifico intendiamo oggetti che, oltre ad essere delle unità nel tempo, contengano anche in sé l'estensione temporale" - E. Husserl, op. cit., p.59), la cui percezione presenta essa stessa una temporalità. La percezione della durata presuppone la durata della percezione.

Sin dalle prime pagine dello scritto husserliano emerge come l'analisi del tempo, esemplificata attraverso la visualizzazione di fenomeni d'estensione, non possa prescindere da un linguaggio spaziale. Se la percezione di una melodia si dà mediante punti "ora" - perché il suono che odo è udito concretamente solo nell'ora-istante - questo non significa che l'or ora, ovvero la nota appena passata che "tengo" ancora nella coscienza (in quanto frutto di ritenzione), non sia più percepita. Husserl ingaggia una lotta serrata contro la visione puntiforme della percezione, contro il pregiudizio dell'istante, asserendo che la durata di una percezione è invece composta di "fasi": pur attribuendo all'ora intenzionato il carattere di pura percezione, sia i momenti della ritenzione (cioè i graduali adombramenti dell'ora originario che dura, modificandosi), sia i momenti della protensione (cioè l'aspettativa di ciò che ancora deve venire, vuota nel caso di una percezione originaria, consaputa nel caso di un processo di rimemorazione), sono entrambi costitutivi delle percezione originaria. Husserl intende il tempo come "continuum" digradante, attraverso il quale mai avvengono balzi, né può esserci interruzione o discrasia fra percepito e rimemorato. Le tecniche di perfezionamento del controllo, in effetti, hanno senso solo se resta valido l'assunto di base per cui una sorveglianza continua è possibile.

Rari, però, sono i casi in cui si tenga in dovuto conto il modo in cui un oggetto possa essere percepito.

"I punti della durata temporale si allontanano per la mia coscienza, in modo analogo a quello in cui si allontanano per la mia coscienza i punti dell'oggetto fermo nello spazio, quando io "mi" allontano dall'oggetto. L'oggetto conserva il suo luogo, e così il suono il suo tempo: nessun punto del tempo si sposta, ma fugge nelle lontananze della coscienza e la distanza dall'«ora» originante diventa sempre maggiore. Il suono stesso è il medesimo, ma il suono «nel modo come» appare è sempre diverso"

(E. Husserl, op. cit., p.61).

Ecco lo spettro della trasgressione insinuarsi piano piano nell'apparente fluidità dell'essere. Per quanto possa fissare 24 ore su 24 tutto ciò che accade nel proprio raggio d'azione, l'occhio del controllo non è in grado di "intenzionare" allo stesso modo tutto ciò che osserva. Realmente percepito è ciò che è dato vedere nell'ora, ma a esso sfugge quanto accade simultaneamente.

Il controllo può esercitarsi solo in virtù di successioni, non di simultaneità.

"Il campo temporale originario è evidentemente limitato, proprio come lo è quello della percezione. Anzi, tutto sommato, ci si può permettere di affermare che il campo temporale ha sempre la stessa estensione. Esso si sposta, per così dire, sopra il movimento e il suo tempo obiettivo percepito e ricordato di fresco, alla stessa stregua del campo visivo sopra lo spazio obiettivo"

(ibidem, p.66).

Questa insormontabile mancanza della visione non può essere neppur superata dal perfezionamento dei dispositivi tecnologici, sebbene in grado di riprodurre l'accaduto nella sua eveniente identità e per innumerevoli volte (basti pensare all'iterabilità di una registrazione audiovisiva, grazie alla quale è sempre possibile tornare sullo stesso fatto, scandagliando, di volta in volta, qualsiasi particolare precedentemente trascurato). Husserl affronta questo discorso sulla base del ricordo di qualcosa che "pare" non esser stato percepito, ma, al di là dei differenti casi, a interessarci è giusto la struttura del procedimento. La "presentificazione", ovvero il ripresentare nel ricordo (al pari del riprodurre nell'attualità) ciò che si è presentato nella percezione originaria, pertiene indubbiamente alla sfera di libertà del soggetto, ma non è scevra dai limiti della percezione.

"Ma si dirà: posso non avere un ricordo, anche primario, di un A, mentre in verità non c'è stato nessun A? Certo. Anzi, c'è di più: io posso avere una percezione di A, mentre A in realtà non c'è. E con ciò, l'evidenza che sosteniamo non è che, quando abbiamo una ritenzione di A (posto che A sia un oggetto trascendente), A debba essere già passato, ma solo che A deve essere stato percepito. Che a esso si sia fatto primariamente attenzione o no, esso era lì in carne ed ossa, consaputo, anche se non notato o notato solo di passata"

(ibidem, p.68).

Che si tratti di un ricordo primario (ritenzione), o secondario (rimemorazione), mai intercorre perfetta coincidenza fra percepito e dato. L'occhio del controllo può illudersi di tenere in pugno il soggetto spiato, ma dimentica di fare i conti con i suoi stessi limiti e con la possibilità che alla sua azione (intenzione) possa sovrapporsi una reazione depistante. Non è possibile intenzionare allo stesso modo, e completamente, il flusso del continuum temporale, proprio perché questo è dato solo attraverso la percezione di una singola continuità. Non avviene mai un superamento dialettico di uno "stato" temporale, presupponendo questo l'invarianza della percezione nel continuum, bensì uno "stacco", un salto, una frattura fra intenzionamenti di uno stesso oggetto che si offre alla vista, ma con zone d'ombra sempre nuove.

Il continuo non va allora trattato più come base di supporto cui ricondurre tutto il resto. Senza dubbio ci sarà sempre chi ritenga necessario analizzare ogni singola modificazione nel campo di questa inerzia, alla stregua di come si analizza ogni minimo movimento nel campo della gravitazione. Questa analogia, però, trova riscontro solo neutralizzando e respingendo ogni modificazione ai confini esterni del tempo, verso una passività originale. L'archeologia foucaultiana, al contrario, "si propone di rovesciare questa disposizione, o meglio (poiché non si tratta di attribuire alla discontinuità la funzione fino a questo momento accordata alla continuità) di mettere in azione l'uno contro l'altro il continuo e il discontinuo: di mostrare come il continuo si formi secondo le stesse condizioni e in base alle stesse regole della dispersione; e che esso rientra - né più né meno delle differenze, delle invenzioni, delle novità o delle deviazioni - nel campo della pratica discorsiva" (M. Foucault, AS, op. cit., p. 229).

Una falla ulteriore emerge da quest'analisi: Husserl parla di oggetti "assolutamente intenzionati" nella percezione dell'«ora», come se la condizione dell'istantaneità fosse scevra da qualunque ambiguità. Vero è che, talvolta, Husserl pare avvedersi dei rischi connessi a simili affermazioni categoriche, come quando osserva:

"Idealmente, la percezione (impressione) sarebbe allora la fase di coscienza che costituisce il "puro" ora, e il ricordo ogni altra fase della continuità. Ma si tratta appunto soltanto di un limite ideale: qualcosa di astratto che, di per sé, non può essere nulla. Inoltre, sta di fatto che anche questo "ora" ideale non è qualcosa toto caelo diverso dal "non-ora", ma si media continuamente con quello. A ciò corrisponde il continuo trapasso della percezione nel ricordo primario"

(E. Husserl, op. cit., p.74).

Concetti quali quelli di punto, linea, successione, sono schematizzazioni utili per chiarire l'organicità dei "vissuti", ma finiscono per intrappolare il pensiero nelle maglie di riduttive suggestioni geometrizzanti, tanto da impedire a Husserl di affrancarsi dai paradossi del "pre-categoriale", così come al Wittgestein del Tractatus di svicolarsi dal binomio "puro vedere" e "interpretazione del vedere". L'occhio del controllo vede per "stati", per "datità immediate", senza rendersi conto che ogni "stato" è in realtà un "abito", tale per cui "ciò che appare come uno "stato" ha dentro e dietro di sé una catena di interpretazioni" (C. Sini, La mente ed il corpo, Cuem, Milano 1998, p.9).

L'apparire o lo scomparire delle positività, il meccanismo di sostituzione cui esse danno luogo, non rappresenta un processo omogeneo che evolve ovunque allo stesso modo. Non bisogna neppur credere che la frattura sia una specie di grande deriva generale a cui,  contemporaneamente, sono sottoposte tutte le formazioni discorsive o non discorsive: la frattura non è un tempo morto e indifferenziato che si inserisce - anche solo per un istante - tra due fasi manifeste; non è il lasso senza tempo che separa due epoche e lascia che due tempi eterogenei si svolgano da una parte e dall'altra di una faglia; "è una discontinuità tra positività definite e specificata da un certo numero di distinte trasformazioni" (M. Foucault, AS, op. cit., p. 229).

La contemporaneità di diverse trasformazioni non significa infine la loro esatta coincidenza cronologica: ogni trasformazione può avere il suo particolare indice di "viscosità" temporale. Conseguentemente, trasformazioni analoghe o collegate non rimandano mai a un modello unico che, a ciascuna di esse, imponga una forma strettamente identica di frattura.

Ma esiste un luogo privilegiato della società ove vedere all'opera queste impercettibili tragressioni? (continua 2.7)