Il tempo della seconda vita

04.05.2020

La disgiunzione cronologica come esito dello stacco e il processo di riscrittura del sé

Iniziare, o ricominciare? Quando la sospensione delle attività e delle abitudini quotidiane diviene un'interruzione prolungata, la domanda su quel che sarà "d'ora in poi" evidenzia inevitabilmente uno stacco. Le condizioni di vita che la parola pone al di là della soglia da essa stessa evocata potrebbero non essere uguali a quelle del passato. Non a caso il saggio ripete: "Ogni giorno è un nuovo inizio". Riconoscere questo stacco comporta l'interruzione del fluire del tempo come continuo, frammentandolo in un prima e un poi. In tal senso, la vita sarebbe destinata a iniziare sempre di nuovo, mai a ricominciare.

La domanda d'apertura, però, mette in gioco di più.


"Ho definito trasformazione silenziosa - scrive François Julienne in "Una seconda vita" (Feltrinelli 2017, p. 19) - la trasformazione che procede senza clamore e di cui non si parla: silenzio sui due versanti. Essendo globale e continua, non si scosta sufficientemente dalla nostra vita da poterla notare. Ma, continuando a ramificarsi e rafforzarsi, la trasformazione, come uno strato di schiuma, un giorno comincia ad affiorare: un esito si fa strada e si impone alla nostra attenzione. Si tratta di un avvento tanto più clamoroso quanto l'avevamo sentito venire. L'avvento di una seconda vita, in seno alla vita stessa, appartiene all'ordine del minuscolo che si accumula; si opera una flessione che a poco a poco ci devia da quella che retrospettivamente ci appare, in forza della distanza presa, come una "prima" vita".


Siamo qui lontani da una nozione di tempo "divisibile", così come il linguaggio quotidiano ci abitua a pensare. Se fra il prima e il dopo nulla è uguale, certamente le nostre abitudini o i nostri gesti conservano qualcosa di analogo (la preposizione ana, in greco antico, indica un "andare a ritroso", un riproporsi altrove, quindi una specie di "ripresa" con maggior consapevolezza). La misura del tempo è infatti differente rispetto a quella dello spazio, che per la geometria euclidea può essere invece diviso in parti uguali e ricombinato senza comportare alcuno stacco.

"Nel teatro del passato che è la nostra memoria" - spiega Gaston Bachelard ne "La poetica dello spazio" (Edizioni Dedalo 1975, p. 36) - "lo scenario mantiene i personaggi nel loro ruolo dominante. Si crede talvolta di conoscersi nel tempo e non si conosce che una sequela di fissazioni negli spazi della stabilità dell'essere, di un essere che non vuole passare, che, nello stesso passato, quando va alla ricerca del tempo perduto, vuole "sospendere" il volo del tempo. Lo spazio, nei suoi mille alveoli, racchiude e comprime il tempo: lo spazio serve a questo scopo".


Potremmo allora distinguere le frazioni spaziali del tempo, chiamando Fase1 quella antecedente lo stacco e Fase2 quella seguente. Anche se si trattasse di fasi con la stessa estensione, ad esempio entrambe di 60 giorni, non potremmo nominarle tutte e due Fase1, proprio perché lo stacco della parola le rende analoghe, e non identiche, da punto di vista temporale. Diventa dunque necessario distinguerle con segni differenti: se usiamo numeri progressivi (1,2,3...), possiamo indicare un allontanamento crescente dalla soglia di stacco, senza rinunciare all'ordine prodotto dalla nostra norma. Applichiamo infatti una misura comune che aiuta a dar forma all'informe del continuo, rendendolo leggibile in quanto omogeneo. Avrebbe ancora senso parlare di una Fase1, cui segue una FaseA? O di una Fase1, accostata a una Zona2? Cambiare le misure di riferimento, o i termini di scrittura, ha sicuramente un effetto spiazzante, perché così facendo vengono introdotti nuovi "stacchi" da giustificare e omologare a loro volta. Anche mantenendo la stessa misura, però, possono sorgere nuovi problemi. Una Fase1 accostata a una Fase4, ad esempio, non lascia indifferenti: in che modo accettare la loro contiguità, se i numeri utilizzati alludono a un principio di progressività? Forse che la Fase2 e la Fase3 presentano caratteristiche fra loro più analoghe, rispetto all'analogia che intercorrere fra la Fase1 e la Fase4? E dove collocarle, allora, rispetto alla linearità del tempo?


Iniziare o ricominciare. La parola va soppesata sempre, perché se non vogliamo correre il rischio di essere equivocati, o addirittura non compresi, occorre mantenere una misura anche nel suo uso. Ma può davvero essere misurata, una parola? Misurarla vuol dire forse, come suggerisce ancora una volta il saggio, "contare fino a dieci prima di parlare"? Il suo metro ha sicuramente a che fare col numero e col tempo, ma in quanto partecipe del principio di omogeneità. Ce ne rendiamo conto più facilmente quando ricorriamo a sinonimi, neologismi o metafore, proprio perché la mancata omologazione del loro significato apre pericolose incrinature nel discorso, abilmente sfruttate dalla retorica sin dalla sua ipotetica nascita a Siracusa.


"L'antica definizione arrivata a noi dai Siciliani - "Le retorica è operatrice di persuasione" - peithous demiourgos - ci ricorda che la retorica è stata aggiunta come una tecnica all'eloquenza naturale, ma che questa tecnica affonda in una capacità creativa spontanea; tra tutti i trattati didattici scritti in Sicilia e poi in Grecia, quando Gorgia si fu stabilito ad Atene, la retorica fu questa techné che rende il discorso consapevole di se stesso e fa della persuasione uno scopo distinto da conseguire mediante il ricorso ad una strategia specifica" (Paul Ricoeur, La metafora viva, pp.10-11, Jaca Book 2001).


Se ogni parola fosse mera articolazione del pensiero che stiamo rimuginando, non dovremmo correre gravi rischi: siamo in fondo uomini che si stanno rivolgendo ad altri uomini, esseri dotati delle stesse facoltà, per quanto appartenenti a luoghi o storie diverse. Trovato un accordo sul significato o la traduzione - io dico "confinamento" tu dici "lockdown" - la parola potrebbe circolare dall'uno all'altro senza intoppi. In questa visione semplicistica, le espressioni significative dell'uomo non sarebbero che varianti fonetiche riferite a uno stesso oggetto, o concetto. Il problema, però, è che oggetto e concetto non esistono come cose in sé, pronte per essere indicate e pronunciate. La parola significativa non è mai la denotazione di un dato pre-esistente, messo a disposizione dai sensi e quindi pensato. Non è un nome calzato sopra la cosa da noi intesa, ma è pensiero in atto: pensiero che si fa dicendosi. "Ciò che si è pronti a fare", per il logico Charles Sanders Peirce. Uno schema d'azione, volendo usare un linguaggio più familiare, ma non per questo scevro da rischi.


Potremmo figurare la parola significativa come il traguardo di un percorso che ha circoscritto un modo d'uso del mondo, grazie all'abitudine di un gesto condiviso. Solo riconosciuta l'analogia del mio schema d'azione, del "mio esser pronto a fare", con quello altrui, posso allora intendermi. "Confinamento", o "lockdown", significano all'incirca "vivere entro lo spazio domestico".


Tutto chiaro e definito? Non esattamente. Se ogni azione si svolge nel tempo, e non solo nello spazio, produce segni analoghi e non uguali. Una situazione limite può aiutare a rendersene conto meglio. Se i soggetti del confinamento si trovassero in condizioni perfettamente identiche nel frequentare e usare lo stesso mondo, sarebbe il loro incontrarsi - o meglio limitarsi - a far emergere uno stacco rispetto alla continuità delle loro azioni individuali. Questa soglia coinciderebbe con l'accadere di un evento eccezionale riconosciuto in quanto tale, proprio in virtù del suo essere detto in parola. "Tu stai facendo quello che faccio io". Nella definizione di un significato comune, è perciò il tempo, la stratificazione delle storie individuali, a fungere da discriminante ultima delle possibili uguaglianze o differenze d'azione. Il tempo discontinuo si manifesta nell'analogia istituita dalla parola, ragion per cui l'intesa sul significato degli oggetti e dei concetti del proprio mondo sarà tanto più veritiera, quanto maggiore l'analogia delle rispettive narra-azioni.


"Sebbene la verità, tradotta in asserzioni, possa soggiacere a condizioni di tempo e di senso (nello stesso tempo e nello stesso senso, diceva Aristotele)" - sottolinea Carlo Sini in "Incontri. Vie dell'errore, vie della verità" (Jaca Book 2013, p.29) - "essa non può però accogliere, per così dire, limitazioni di significato. Non può appartenere e non appartenere al significato di verità. E ciò perché, quando noi nominiamo il significato di verità, di principio intendiamo con esso la verità dell'evento e di ogni evento. Compreso quindi l'evento che ha prodotto il significato di verità. L'interpretazione veritativa vuol dire la verità dell'evento, ovvero ciò che l'evento è in verità. Vuole dirlo o, quanto meno, mira a dirlo in un'approssimazione infinita".


Se la verità pubblica è il prodotto dell'approssimarsi del significato dell'uno al significato dell'altro - l'incontro di storie differenti che, nel riconoscersi, segnano uno stacco - allora ogni inizio non ha mai un'origine univocamente determinabile. E' invece la riconfigurazione, o meglio la riscrittura, delle nostre azioni significanti in un processo di inesauribile mediazione con l'altro.


"Solo nella comunità con altri - ricorda Karl Marx ne "L'ideologia tedesca" (Editori Riuniti 1975, p. 54) - ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni: solo nella comunità diventa possibile la libertà personale".


Raramente questa consapevolezza abita però la comunicazione quotidiana, ancor meno quando vengono a mancare le condizioni materiali per fare comunità. Tendiamo infatti a utilizzare il linguaggio come una sequenza di parole già esaustivamente significative, che indicano, giudicano o vietano, come se i nostri comportamenti dipendessero sempre da condizioni esterne inopinabili, da configurazioni di mondo già pronte per risposte univoche. Ma il nostro mondo è innanzitutto il nostro corpo: un ininterrotto dialogo con corpi altrui, con quell'unico incommensurabile corpo vivente che chiamiamo "natura" e che nessuna mediazione sarà mai in grado di restituire nella sua complessità.


Disporre di un vocabolario quanto più ricco possibile concorre a colmare questo scarto veritativo, perché ogni singola parola rappresenta la possibilità di frequentare e usare il mondo in modo differente, rafforzando la capacità di definirlo sempre meglio e di pensarlo in modo ancor più articolato. Assistiamo però non solo a un vertiginoso impoverimento del nostro vocabolario, ma anche al concomitante svuotamento del significato delle parole, a favore dell'univocità della denotazione. Tema fondamentale nella riflessione sulla parola dei filologi umanisti, chiamati a rivivificare nel volgare le virtù del latino dei classici, cogliendone tanto la rigidità della struttura grammaticale, quando la sottigliezza semantica delle radici.


"Qui si tratta dell'inventio di una parola che rechi in sé, nella sua espressione letterale, non semplicemente la traccia di un altro significato, ma il segno di ciò che eccede lo stesso esprimibile-rappresentabile" ... "Il vero grammatico è colui che sa scoprire nei testi filosofiche verità, l'interprete-ermeneuta che penetra sagacemente gli involucra o integumenta che quelle verità nascondono o, meglio, ri-velano" (Massimo Cacciari, La mente inquieta, Einaudi 2019, p. 26-28).


Comprendere il processo di costruzione della verità, che si manifesta al contempo nell'evento del significato e nel significato dell'evento mediante la parola, è allora una forma di difesa indispensabile contro le ipostasi e gli automatismi del linguaggio. Aiuta a smascherare la "naturalità" di cui viene ammantato il rapporto causa-effetto, l'orientamento direzionale del tempo, l'induzione dei percorsi che muovono verso categorie predefinite. Invita a cogliere nelle componenti del discorso, nel significato di ogni singola parola e nella funzione di ogni figura retorica, una sottaciuta "intenzionalità" che potrebbe non coincidere affatto con la nostra.


Fase1, Fase2. Ma Fase per chi? Fase di cosa? Quale accordo, rispetto alle trasformazioni silenziose della vita dell'individuo, mostra il linguaggio del tempo scansito e direzionato? La nostra società non può fare a meno di strutturasi secondo questa ritmica coercitiva, o è invece solo espressione del suo modello di sviluppo?


"Il neoliberismo è un sistema molto efficace nello sfruttare la libertà - denuncia Byung-Chul Han in "Psicopolitica" (Nottetempo 2016, p. 11) - intelligente perfino: viene sfruttato tutto ciò che rientra nelle pratiche e nelle forme espressive della libertà, come l'emozione, il gioco, la comunicazione. Sfruttare qualcuno contro la sua volontà non è efficace: nel caso dello sfruttamento da parte di altri il rendimento è assai basso. Soltanto lo sfruttamento della libertà raggiunge il massimo rendimento".


Una questione di performance, in definitiva. Di esatta determinazione di pesi e misure. Nel momento in cui la verità viene però colta nel suo aspetto processuale, nel suo costante disegnarsi attraverso traiettorie intenzionali, questa pretesa non può che suonare irrealistica. Solo una società messa in crisi dalla libertà polisemica può scivolare nella guerra alle cosiddette "fake news". Il concetto di notizia falsa presuppone infatti l'esistenza di una notizia vera, ma se il vero viene ricondotto a un principio di autorevolezza, rivela solo la sua nostalgia per l'autorità, il potere e il controllo. Se, al contrario, il vero viene mostrato come prodotto della costruzione di senso, bisogna andare sino in fondo alle implicazioni di questo "smascheramento" e prendere atto che la verità non può mai essere un dato di fatto pienamente determinabile, bensì un transito di intenzionalità interpretanti.


Questa è anche l'idea alla base del "giornalismo filosofico" verso cui invitava a indirizzarsi Michel Foucault, ripensandolo come forma di emancipazione dalle maglie sempre più pervasive del potere. Un esercizio che coinvolge il lettore - e non un'entità terza sottratta ancora una volta al suo diretto controllo - nel ripercorrere il gesto di verità del giornalista. "Se ne volessimo dare una prima definizione - scrive Paolo Vernaglione in "Il giornalismo filosofico come genere della critica" (www.materialifoucaultiani.org) - diremmo che esso, come effetto ibrido di cronaca e pensiero, prevede una grammatica dei concetti, l'esibizione di un ambito in cui una logica delle connessioni ha modo di dichiararsi. Indaga inoltre un'analitica dei rapporti tra poteri, saperi e soggetti in orbite del pensiero intorno a un nucleo stabile di informazione". 


Nulla di più lontano dalla comunicazione di massa odierna, che tende a svalutare il ruolo attivo del lettore/spettatore nella concorso democratico alla verità, ricorrendo invece alla censura e alla rimozione del falso ad opera di una nuova auctoritas. Per ciascuno di noi la difesa del senso non può allora consistere nell'accogliere l'una o l'altra verità, basandosi semplicemente sulla selezione di fonti già elaborate. Ciascuna di esse è infatti portatrice di interessi e intenzioni. Richiede invece un'educazione all'esercizio della verità, a uno sforzo decostruttivo sino agli atomi della grammatica, frequentando ininterrottamente le soglie mobili della scrittura e facendo dell'informazione il primo esercizio di "realtà aumentata". 

Non significa abbandonare ogni pretesa di verità, ma lavorare ininterrottamente all'espansione dei nostri modi di frequentare e usare il mondo, proprio come i filologi e gli esploratori dell'epoca umanistico-rinascimentale. Vuol dire mettere in discussione ogni sapere acquisito, ripercorrerne la genealogia, riconoscerne i percorsi d'intreccio nella trama del mondo, via via approssimandosi a una verità quanto più democraticamente condivisibile. Significa fare di ogni inizio un nuovo cominciamento. Ma questo eterno capovolgere la clessidra del tempo non è che la secolare vocazione della filosofia, perturbatrice di ogni ordine costituito e vittima designata di una società che ha ormai scelto di sottrarsi a ogni giudizio.