en-Rivoluzione epigenetica

02/03/2020

I processi ecosistemici non hanno modelli di riferimento certi, ma sono il prodotto di un rapporto di "dialogo" e "riscrittura" permanente con i nostri corpi. Per evitare di essere strumentalizzati dalla nuova retorica ecologista, occorre allora volgere lo sguardo verso quelle "trasformazioni silenziose" che, a livello biomolecolare, permettono di comprendere i rischi cui siamo quotidianamente esposti a causa delle  nostre scelte di sviluppo economico         

Il vocabolario ecologico non è al passo coi tempi. Ogni volta che diciamo di volere ristabilire una "connessione" con la natura, con l'ambiente o la Terra che dir si voglia, commettiamo già un primo, inconsapevole errore. Errore che non evitiamo neppure quando parliamo di "sintonizzarci" alla natura, o - con linguaggio forse meno meccanicistico - di radicarci, di ritrovare il contatto perduto con Madre Terra. Dalla "natura" - e le virgolette sarebbero sempre d'obbligo, senza aver prima ben definito e compreso il lunghissimo cammino genealogico delle parole utilizzate - non ci distacchiamo mai, neppure quando viviamo in ambienti fortemente antropizzati, o addirittura virtuali. Anzi, dipendiamo dal nostro habitat - qualunque esso sia - in una misura sino a pochi anni fa ancora inimmaginabile. Non dovremmo parlare allora di connessione bensì di permeabilità, secondo i più recenti studi di epigenetica e genomica sociale. E che diavolo mai sono? Domanda lecita, trattandosi di discipline venutesi a definire solo negli ultimi anni, capaci però di provocare vere e proprie scosse telluriche nel nostro sapere. Meglio procedere allora con prudenza.

L'uso delle espressioni "connettere", "sintonizzare" o "radicare", tornando all'esempio iniziale, porta facilmente a presupporre una dualità - noi uomini da una parte, la natura dall'altra - che i meno ingenui si propongono da tempo di attenuare o superare attraverso pratiche di riequilibrio. Earthing, mindfulness, bagni sensoriali, ad esempio, sono alcune delle vie promosse oggi per "ritrovare la nostra vera natura". La sensazione di distacco dal tutto, che affligge l'uomo contemporaneo, può apparire in questi casi conseguenza di un errore di valutazione, di un modo distorto di vedere o vivere il proprio corpo.

FUORI E DENTRO LA NATURA
Al di là delle tante e affascinanti tecniche messe in campo per dissolvere gli inganni dell'ego-centrismo, la scissione uomo/natura risulta una costante metastorica, tanto d'aver alimentato il sospetto che possa essere un limite congenito della specie umana. Proprio perché siamo uomini, e non semplici animali, non possiamo che vivere "fuori" dall'immediatezza della natura. O meglio, "dentro", quasi fossimo osservatori privilegiati collocati in un enorme boccia di vetro. Con la sua proverbiale incisività, il filosofo Ludwig Wittgestein cercò di far ordine una volta per tutte, scrivendo una proposizione tautologica che ancor'oggi non smette di provocarci: "il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo" (n. 5632 - Tractatus logico-philosophicus, 1921).

Eppure c'è chi è stato in grado di andare oltre le ordinarie distinzioni. Abbondano i racconti di sciamani, mistici e di ineguagliabili yogin capaci di spingersi là dove solo a pochi eletti è concesso, accedendo a una dimensione di fusione col tutto che, in ultima istanza, rappresenterebbe lo scopo dell'esistenza umana. Ma qui torniamo paradossalmente al punto di partenza. Se qualcuno di loro è mai riuscito a realizzare quest'esperienza, di certo non ha potuto spiegarci esattamente in che cosa consista. Non a caso i testi in materia sono quasi sempre scritti in termini limitativi; parlano di sensazioni e visioni a loro modo indicibili, a cui ci si può avvicinare per approssimazione, per similitudine o analogia. Metaforizzando quanto conosciamo. A partire da questo paradosso, dovremmo già essere in grado di cogliere un primo, significativo indizio, utile per comprendere la recidiva dei nostri tentativi condannati allo scacco. Nel percorso di formazione che ognuno di noi compie per riconoscersi propriamente uomo e soggetto razionale, entra infatti in gioco una pesante eredità destinata a condizionare tanto il nostro modo di stare al mondo, quanto di spiegarlo e di dargli un senso. Una strategia di adattamento e sopravvivenza che, cominciando a venir meno nell'epoca della digitalizzazione, rischia forse di anticipare un'estinzione sancita proprio in coincidenza del sorgere della fatica domanda esistenziale: chi, o che cosa, sono io?

LA PAROLA È PENSIERO
Connessione. Radicamento. Fusione. Le parole usate quotidianamente non sono mai innocenti, perché condizionano il nostro modo di pensare nel momento stesso in cui gli danno forma. Detto in modo più diretto, parole e pensiero sono consustanziali: non esiste un pensiero muto precedente la parola ed espresso poi a voce. Possiamo dire di pensare propriamente, di spiegare cioé la realtà in modo logico e razionale, solo attraverso l'uso del segno/parola: quando iniziamo a prendere atto della corrispondenza significante fra la soddisfazione, o meno, del desiderio che ci abita e la risposta ad esso offerta. A partire da questa soglia, infatti, il nostro anonimo e impersonale desiderio comincia a trasformarsi in qualcosa di sottilmente diverso, in un'emozione più articolata, che dal punto di vista fisiologico siamo soliti definire come bisogno. Nel graduale processo di circoscrizione e definizione orale delle nostre emozioni, dei nostri gesti e delle nostre azioni, può infine fare irruzione una pratica che altera in modo irreversibile il modo stesso in cui stiamo al mondo: la scrittura. Pratica ancor più rivoluzionaria, qualora si tratti di scrittura alfabetica. Per comprendere a fondo non solo il nostro modo di pensare, ma anche e soprattutto gli inconsapevoli errori e cecità che si manifestano nella vita di tutti i giorni, la cesura inerente il passaggio dall'oralità alla scrittura è appunto fondamentale. "L'uomo della scrittura - scrive Carlo Sini nel suo libello "Filosofia teoretica" (2018) - non è un uomo paticamente coinvolto nel messaggio. Egli non è un ascoltatore ma un lettore, il che è decisivo per l'emergere di tutt'altra esperienza di sé e della propria soggettività. Il lettore, come per primo comprese Creuzer, è in una situazione di "separatezza" rispetto al discorso; può fermarsi a considerarlo "freddamente", può tornare indietro e rileggere, può riflettere sui suoi contenuti. Inoltre, l'enunciato scritto è ora assimilato a una cosa materiale durevole (non è un inarrestabile flatus vocis), sulla quale io posso eseguire ogni sorta di operazioni misurative e quantitative, lessicali e sintattiche (sicché la lingua, come cominciò ad accadere con i sofisti, può diventare essa stessa oggetto di considerazione, anziché essere direttamente fruita nell'uso vivente e inconsapevole)". La funzione combinatoria e calcolatoria dell'alfabeto, oggi poco evidente se non agli enigmisti, era invece maggiormente visibile a greci e latini, abituati a far di calcolo con gli stessi segni delle lettere. Potremmo addirittura dire che le formule matematiche sono l'evoluzione della tecnica manipolatoria delle lettere, analogamente a quanto Alfred Kallir sosteneva sulla trasformazione in segni convenzionali delle lettere: niente più che disegni decaduti ("Segno e Disegno. Psicogenesi dell'alfabeto", 1994).

NON SIAMO SOLO GENI
Tenendo allora presente l'inevitabile frammentazione della realtà che operiamo attraverso l'uso della parola e della scrittura - in atto anche quando la descriviamo, con pretesa di verità oggettiva, usando immagini di atomi, molecole o particelle - possiamo superare le ovvietà del senso comune tornando a una forma meno ingenua di scienza. Sino agli anni '90 del Novecento, infatti, è stata proprio l'idea di gene a rafforzare, anziché dissolvere, il pregiudizio circa la necessità di "connessione" fra uomo e natura. La teoria neodarwinista, secondo cui ciò che è scritto nel nostro Dna rappresenterebbe anche il nostro destino evolutivo, necessita di essere corretta dalle recenti scoperte degli studi epigenetici: novità morfologiche e funzionali occorrono nell'individuo già nel breve scarto generazionale madre-figlio, e non solo dopo un lungo processo di adattamento di specie, perché prodotte dall'influenza che l'ambiente esercita a livello embrionale sulla vita dei singoli organismi. Come spiega nel saggio "L'epigenetica" Flavio D'Abramo, dottore di ricerca in Filosofia, è stata mostrata sperimentalmente "la possibilità degli organismi di incorporare, nei loro processi di sviluppo, dinamiche di interazione con l'ambiente che danno luogo a nuove caratteristiche fenotipiche, le caratteristiche che vengono trasmesse di generazione in generazione. Conrad Waddington, in particolare, ha dimostrato la possibilità dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti, attraverso il cosiddetto processo di assimilazione genetica: ha dato cioè forza al ruolo dell'individuo come livello di selezione naturale e non ai geni, così come proposto dai sostenitori del neo-darwinismo".

L'INFLUENZA AMBIENTALE
Per comprendere la profonda permeabilità fra uomo e ambiente, vanno presi in considerazione tre processi fondamentali nello studio dell'embrione: l'istogenesi (la sua differenziazione nel tempo), l'organogenesi (la sua differenziazione nello spazio) e la morfogenesi (la sua differenziazione nella forma). Da questo triplice punto di vista, il genotipo non è semplicemente una collezione di tutti i geni presenti nell'ovulo fertilizzato - vincolati fra loro dall'ancestrale programma di scrittura del Dna - ma è un prodotto che può variare anche in funzione della loro disposizione. E la disposizione, cioé la vicinanza di un gene rispetto a un altro, è proprio il fattore che può essere influenzato dagli stimoli chimici dell'ambiente in cui si vive. E' come se esistesse una precisa strada che le nostre cellule germinali sono tenute a seguire, avendo ben presente quale debba essere la direzione finale, ma il cui tracciato può subire alcune piccole variazioni: il principio cardine dell'odosophia, trasposto sul piano biologico. Se succede qualcosa che altera questo percorso (chiamato propriamente omeorresi), allora i meccanismi di controllo del Dna non riportano il sistema al momento in cui avviene l'interruzione del normale processo biologico, ma là dove sarebbe stato una volta trascorso quel dato intervallo di tempo. "Si può pensare a un sistema omeorretico come a un corso d'acqua che fluisce verso il fondo della valle - scriveva proprio Conrad Waddington - e dove, se uno smottamento spinge il corso d'acqua fuori dal suo letto, questo, poi, non tornerà indietro nel letto del fiume dov'è avvenuta la frana, ma fluirà più avanti, giù verso il pendio".

PAESAGGIO EPIGENETICO
Il biologo britannico chiamò "creodo" questa traiettoria stabilizzata nel tempo, parola composta dal greco chre, che significa destinato o necessario, e da hodos, traiettoria, o via. Quando uno degli elementi devia dalla sua traiettoria, questo viene riportato sulla "via normale" dagli elementi che lo circondano, ovvero dal contesto. Ancora una volta, Waddington trovò supporto nell'uso della metafora parlando di "paesaggio-epigenetico", per le cui valli (creodi) scivola la sfera-cellula. Quest'ultima, perciò, non è determinata solo dalla sequenza genetica ereditata, ma da una complessa rete di interazioni, di forze fisiche che si applicano a tutto il mondo vivente, condizionando lo sviluppo dell'organismo ancor prima della selezione naturale. Fra queste vanno incluse anche quelle di carattere sociale, dipendenti dal modello economico secondo cui la nostra vita è strutturata. "Ciò che vorremmo risultasse chiaro - scrivono in "Genomica sociale" Carlo Alberto Redi e Manuela Monti, rispettivamente professore di Zoologia all'Università degli Studi di Pavia e docente di Biologia delle cellule staminali all'Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia - è che le profonde disuguaglianze socioeconomiche presenti, in maniera maggiore o minore, in tutte le popolazioni che abitano la Terra si traducono, si incarnano, nell'essenza biologica degli individui, nel proprio essere corporale. E' ormai chiaro che esiste una transizione sociobiologica e che le condizioni di natura e di cultura in cui si sviluppa e vive un individuo si rincorrono influenzandosi reciprocamente in una relazione circolare".

ECONOMIA DEL PENSIERO
A differenza di quanto sostenuto dai teorici di matrice neodarwinista, che hanno enfatizzato e proiettato nei rapporti fra uomini la dimensione della competizione e della lotta per la sopravvivenza, gli odierni studi di biologia dimostrano invece che, in termini evolutivi, sono le strategie di reciprocità ad essere vincenti. Una conclusione cui si è pervenuti non semplicemente facendo ricerca scientifica, ma in seguito al superamento di una contrapposizione fra blocchi ideologici. Dopo il dissolvimento dell'Unione Sovietica, anche gli scienziati furono infatti presi in contropiede, essendosi resi conto che il loro sapere non si era evoluto indipendentemente dal contesto politico. La diversità dei modelli economici un tempo esistenti aveva permesso alla genetica di elaborare i propri processi, in termini di verità oggettiva, senza avvedersi dell'influenza sul modo di pensare esercitata dalla società in cui si viveva: il libero mercato aveva orientato lo sguardo verso l'elaborazione di una teoria evolutiva basata sulla lotta per la sopravvivenza, mentre il collettivismo aveva spinto a indagare in via primaria i rapporti solidali in natura. Una reciproca forma di invisibilità, o silenzio teorico, messa in luce in realtà nei seminali studi di Michel Foucault, quando nella "Volontà di sapere" (1976) scriveva: "Non va fatta una distinzione binaria tra quel che si dice e quel che non si dice; bisognerebbe invece cercare di determinare le diverse maniere di non dire, come si distribuiscono quelli che possono e quelli che non possono parlarne, quale tipo di discorso è autorizzato o quale forma di discrezione è richiesta per gli uni e per gli altri. Non c'è uno, ma più tipi di silenzio, ed essi fanno parte integrante delle strategie che sottendono ed attraversano i discorsi".

NUOVE RESPONSABILITÀ SOCIALI

Nell'epoca della globalizzazione, nella quale il libero mercato è evoluto nella finanza virtuale, priva cioé di alcun limite o bilanciamento materiale, emerge in modo sempre più lampante la contraddizione fra un modello economico basato sull'ineguaglianza e un sapere scientifico che, al contrario, dimostra la necessità biologica della cooperazione. Oggi c'è chi, come la studiosa canadese Heather Pringle, si è arrischiato a individuare addirittura il periodo storico preciso in cui è emersa l'ineguaglianza fra uomini, sostenendo che furono le popolazioni semisedentarie dei Natufiani a interrompere la comune pratica di condivisione del cibo. Nell'avviare le prime forme di accumulo di granaglie, attorno al 13mila a.C., contribuirono infatti a gettare le basi della stratificazione fra più e meno ricchi. Dall'accumulo di granaglie all'accumulo del capitale, storicamente parlando, il passo fu breve, tanto da aver dato vita a un modello economico che, oltre a consumare in modo indefinito le risorse del pianeta, causa strutturalmente un progressivo allargamento della forbice sociale: solo per quanto riguarda l'Italia, i recenti dati Censis e Istat attestano che 9 italiani su 10 sono oggi più poveri dei loro genitori. 

SENSIBILITA' EMBRIONALE

Se fattori come dieta, stress, depressione, ma anche inquinamento, istruzione, o cure mediche, sono diventati per l'epigenetica determinanti per lo sviluppo degli embrioni, le responsabilità di eventuali malattie o degenerazioni non sono più semplicemente imputabili alle caratteristiche biologiche dell'individuo. Dipendono dall'ambiente e dal modello di società in cui scegliamo di vivere. Basti pensare a come un semplice mutamento nella condizione famigliare, ad esempio l'assenza di un padre biologico, sia responsabile della comparsa anticipata del menarca in una ragazza, essendo in grado di modificare l'abituale produzione di ormoni, con effetti a cascata sul sistema nervoso, endocrino, immunitario, cardiovascolare, riproduttivo...In particolare, sono la fase prenatale e le prime fasi di sviluppo del bambino ad incidere maggiormente nella cosiddetta "plasticità epigenetica", in quanto nei primi tre anni di vita le strutture biologiche sono particolarmente sensibili a variazioni, mentre nella fase fetale si è scoperto che il nuovo organismo crea addirittura un proprio modello predittivo dell'ambiente che verrà. Se nel frattempo questo muta, il nascituro andrà sicuramente incontro a disturbi di salute. Con questa ridefinizione del ruolo condizionante dell'ambiente, vengono perciò evidenziate in modo sempre più preciso le responsabilità causali, dirette e indirette, degli individui e della collettività. 

Senza un intervento politico sulle crescenti disuguaglianze favorite dal modello economico in cui viviamo, corriamo oggi il rischio che la capacità di manipolazione dei corpi non si limiti più alla loro gestione, ma intervenga addirittura sulla loro produzione. "Il prevalere dell'innovazione tecnologica - mette in guardia proprio Flavio D'Abramo, denunciando l'ambiguità dei finanziamenti privati sulla ricerca scientifica - potrebbe portare a politiche e narrative che sottopongono donne, pazienti e cittadini ad uno stretto controllo sociale, attraverso cui valori di salute modellati su specifici modelli di produttività, dettati dall'industria e da politiche governative, vengono introiettati dai singoli soggetti". L'epigenetica è il pharmakon dei nostri tempi: medicina e al contempo veleno. Spetta a noi la scelta di come utilizzarla.