Negli occhi di Modesto Varischetti

20.04.2020

L'Italia stordita, ferita e sconvolta da Covid19, l'anomalo coronavirus che in poche settimane ha tolto al Paese non solo il respiro ma anche le proprie certezze, ha un volto lontano in cui riconoscersi. Non é, e non può essere solo quello delle tante anime che si sono sacrificate negli ospedali per giorni ininterrotti. Quel volto, infatti, è il nostro specchio, il riflesso di come noi vogliamo vederci, o di come gli altri ci vedono oggi. Oltre il giudizio del presente, però, sta lo sguardo del tempo, dell'occhio che osserva e giudica al di là della convenienza. Uno sguardo con cui abbiamo dovuto confrontarci in passato, per confermare o smentire la sua verità su di noi; uno sguardo che il veleno del virus, nel suo pretendere distanze e misure di sicurezza, nel suo alimentare sospetti e delazioni, nel suo tracciare nuovi e vecchi confini, carica ancora una volta di responsabilità al cospetto della comunità internazionale. Il volto che l'Italia non ha mai smesso di mostrare al mondo è quello di Modesto Varischetti, il bergamasco che visse tre volte.  

Australia, Eastern Goldfields

(informazioni e fotografie utilizzate nel testo fanno riferimento principalmente al libro "Dingbat Flat - The Kalgoorlie-Boulder Riots" e al materiale d'archivio fornito dall'Eastern Goldfields Historical Society)

La foto più conosciuta lo vede ritratto in un letto, appoggiato con la schiena al cuscino e gli occhi persi nel vuoto. La luce che irradia il suo viso pare effondersi per l'intera stanza, riverberando nel bianco delle lenzuola piegate, della camicia abbottonata sino al collo, così come dalla scabra parete alle spalle. E' l'immagine di un uomo ancora giovane, sui trent'anni, ma dall'aspetto surreale. Forse per le vigorose mani abbandonate sopra la coperta, o per la piega spiovente dei baffi umbertini. Appena sotto le loro punte arcuate sbucano labbra sottili, ermeticamente serrate. Il naso, invece, traccia un asse d'innaturale simmetria rispetto agli occhi e alle folte sopracciglia scure. Persino i capelli corti non tradiscono alcuna emozione, se non per qualche sfilacciatura all'altezza delle tempie. Trascurabile la nota in calce, che ricorda il secondo giorno di degenza trascorso dall'italiano nell'ospedale di Coolgardie, polverosa cittadina aurifera dell'Australia occidentale. Non occorrono tante altre parole per confermare che si tratta proprio di lui, dell'ex cittadino di Gorno - nei pressi della Val Seriana - sepolto per nove giorni sotto terra e riportato fra i vivi grazie a una delle più ardite imprese di salvataggio. Il 28 marzo 1907 Varischetti venne infatti alla luce una seconda volta, dopo la sua prima nascita il 24 ottobre 1874, e la morte dovette attendere altri 13 anni per riscuotere il suo tributo, insinuandosi sotto forma di fibrosi nei polmoni del minatore.

Il fotografo ha abilmente sfruttato la luce del sole in arrivo dalla finestra, ma il 19 marzo di quell'anno si erano addensate nubi tanto cupe sopra Bonnievale - 11 chilometri a nord di Coolgardie - che il piccolo insediamento fu presto travolto da un nubifragio violentissimo. Chi cercava di raggiungere le stanze cigolanti degli unici due hotel. Chi trovava riparo nei pressi della scuola o dell'ufficio postale. Chi ancora correva al municipio, in attesa di raggiungere al sicuro le baracche di legno e lamiera messe in piedi nella desolazione dell'outback. Tutta la pioggia invocata nelle soffocanti estati del deserto australiano pareva cadere su Bonnievale. Gli idrometri lasciavano temere il peggio: 2.5 centimetri all'ora, per quattro ore di fila. Mai vista una furia simile dai 250 abitanti del posto. Persino i dirigenti della "Westralia & East Extension", la miniera centrale dell'insediamento, si erano affrettati a far evacuare le squadre in servizio quel giorno. L'acqua scorreva ovunque, allagando ogni pozzo e ogni apertura, col rischio di far crollare da un momento all'altro anche le impalcature montate nelle viscere della terra. Dal tunnel 22, profondo 412 metri circa, strariparono tutti gli operai, inclusi quelli appena entrati per il secondo turno dalle ore 16 alle 24. Tutti, tranne uno. "Charlie". Il perforatore del 10° livello, stretto in un passaggio di un centinaio di metri di lunghezza e poco più di 7 d'altezza. Il lavoro in isolamento, o forse gli assordanti colpi del suo martello pneumatico, lo avevo confinato in un vicolo cieco.

"Bloody hell!". L'acqua saliva velocemente nel corridoio, a quasi 200 metri di profondità. Impossibile tornare verso il tunnel principale. In lontananza, poi, nessun rumore, tranne un gorgoglio inquietante. "Sono finito", confessò a se stesso. "Sì, l'è propri finida", ripeté a voce alta, nel suo dialetto, come non gli capitava più da tempo. Quasi l'ascolto della lingua dei padri potesse lenire lo sgomento dell'abbandono sotto terra. Per un attimo gli balenarono le immagini della partenza da Gorno, il suo piccolo villaggio timidamente aggrappato alle pareti della Val del Riso. Lo scorrere dell'acqua nel tunnel evocava in qualche modo i rimbrotti del suo torrente, che dalla bianca vetta del Monte Grem corre trafelato verso il Serio. Alla fioca luce delle due candele rimastegli, rivide con una stretta al cuore gli alpeggi, i piccoli laghi delle Orobie, la graziosa contrada di San Giorgio. Riconobbe anche il volto di Anna, l'amata moglie sottrattagli troppo presto dal quinto parto in pochi anni. Era stata proprio la sua morte a spingerlo dalla parte opposta del mondo, nella speranza che l'oro australiano potesse sfamare l'intera famiglia cui aveva lasciato i figlioletti e rimediare alla chiusura delle miniere di calamina, miscuglio di minerali da cui - finché possibile - era stato estratto preziosissimo zinco. "Oh, Anna..." - mormorò alle flebili ombre delle candele - "...sa tel fà chi?". Anna non rispondeva. Sorrideva mesta, con l'indice della mano sospeso verso il buio più fitto. Lui avanzò di un passo. Voleva abbracciarla ancora una volta. Avanzò di un altro, reggendosi a fatica nella fanghiglia che gli inzuppava i piedi. Anna continuava a indicare il nulla, ma più le si avvicinava, più lei scivolava via. Cominciò a mancargli il respiro. Si allontanò dalla fiammella della candela, rendendosi però conto che bruciava con vigore maggiore. Sollevò allora il piattino di alluminio su cui poggiava il cero ed ebbe un sussulto. Anna era scomparsa. Al suo posto si apriva una sacca rialzata nella quale riparare dall'acqua stagnante. Scrutò con attenzione. Al suo interno era presente una piattaforma da rimonta. "L'so che go de mor. Ma ole mor con 'mpo de sugo". Strisciando sul legno, riuscì a distendere le membra indolenzite e a liberare infine un profondo respiro. Uno. Due. Tre. Quattro. Prese a contare. Quanto tempo sarebbe riuscito a resistere in quelle condizioni? Lo avrebbero mai ritrovato? Sentiva scendere lacrime salate verso gli spessi baffi e in un impeto d'ira maledisse quella vita fatta solo di stenti, di delusioni e di amare gioie. Le candele si struggevano silenziose, inesorabilmente, quando all'improvviso udì un suono cristallino tendersi da una delle condutture dell'aria, o forse dell'acqua. Attese qualche secondo. Di nuovo la stessa vibrazione. Il cuore prese a battere più forte di una campana. Lassù era rimasto qualcuno. Lo stavano cercando. Brandì un martello e rispose. Due colpi. Spazio. Tre colpi ravvicinati. Sì, era il codice d'emergenza. Avevano stabilito di nuovo un contatto. Varischetti piegò le labbra in una smorfia di gioia. I compagni non lo avrebbero abbandonato, benché capire in che punto della miniera si trovasse non fosse affatto semplice.

Rubinschaum, il direttore generale della compagnia, concordò col collega responsabile dei tunnel, Mr Beard, di chiamare subito Josiah Crabb. Mentre l'ispettore accorreva da Coolgardie, il livello dell'acqua continuava a salire, al punto da superare di una ventina di metri il corridoio 10. Le stime degli ingegneri parlarono poi di 54 milioni di litri d'acqua riversatisi nella miniera. L'unico modo per liberare Varischetti consisteva nell'uso di pompe e decompressori, ma anche con i migliori modelli in dotazione sarebbe occorso troppo tempo. Probabilmente il minatore italiano aveva già i minuti contati. Alla fine l'ispettore suggerì che l'unico modo per tenere in vita Varischetti fosse inviare sommozzatori sul fondo, affidando loro cibo e luce da portare al decimo livello. Venne spedito immediatamente un dispaccio a Perth, nell'ufficio del Ministro delle Miniere, e la risposta giunse altrettanto celere. "Non badate a spese!". In gioco era anche l'immagine di uno dei bacini economici più importanti di tutto il Commonwealth britannico.

La notizia si rincorreva da un capo all'altro del Western Australia. Fu infatti uno scolaro di Perth a lanciare l'idea di utilizzare serbatoi per supportare le operazioni di salvataggio. In prima fila era coinvolto anche Herbert Hoover, non ancora presidente degli Stati Uniti, ma deciso a mobilitare tutte le risorse disponibili della sua società estrattiva. All'appello d'aiuto risposero poi due palombari professionisti, Hughes e Fox, già in forza nella squadra di lavoro attiva presso il Golden Mile, l'inesauribile deposito aurifero che dal 1893 stava facendo la fortuna di Kalgoorlie e Boulder. In meno di otto ore, il treno n.147 era in viaggio dalla costa all'outback, trasportando a bordo 122 metri di pompe, equipaggiamenti di emergenza e sommozzatori di supporto a una squadra di dodici professionisti. Corse come l'inferno, riuscendo a coprire seicento chilometri in 13 ore e 10 minuti. Un record assoluto sino all'introduzione del diesel, avvenuta solo mezzo secolo più tardi.

Il 22 marzo, alle 4 del mattino, tutto era pronto per tentare l'impossibile. Hughes e Fox riuscirono a calarsi sino al livello 9, arrivando ad appena 20 metri dal punto in cui Varischetti era sepolto. Il tempo stringeva e subito venne scartata l'idea di scavare un varco. Fox sarebbe rimasto al piano superiore, srotolando la corda con cui il compagno avrebbe tentato di recuperare il minatore italiano, benché dovesse nuotare per il corridoio 10 in totale assenza di luce. Ogni movimento poteva rivelarsi fatale. Il legno delle travi era ormai talmente zuppo da disfarsi al primo urto. L'australiano non mancava però di sangue freddo e, liberato faticosamente l'ingresso al corridoio, strattonò la corda per richiamare Fox. Non altrettanto agile fu il collega, feritosi subito una gamba nell'operazione. Nuovo stop. Fox venne riportato in superficie e dovette abbandonare il salvataggio. Toccò a Thomas Hearne prendere il suo posto, ma i due sub in servizio non riuscirono a capirsi e furono costretti a riemergere. Hughes non volle demordere e si immerse nuovamente, arrivando ad assicurare la fune all'ingresso del corridoio 10. Immane fatica. La testa gli girava. Il respiro era pesante. Fu necessario ancora uno stop e qualche ora per riprendersi. Nonostante altri palombari volessero dare il cambio, venne deciso che l'operazione sarebbe andata avanti solo con Hughes, la cui esperienza non aveva eguali. Tre ore dopo l'australiano era di nuovo in acqua e, con uno sforzo al limite del possibile, riuscì infine a raggiungere le mani di Varischetti. "I feel you, mate! I feel you!!". Per qualche secondo i due tennero le dita strette; dall'acqua emerse poi una sacca con un torcia elettrica, quindi un contenitore stagno con cibo fresco e altro materiale ancora per curarsi. L'immersione aveva spostato un poco più avanti le lancette della speranza.

Il giorno successivo Hughes e Hearne raggiunsero di nuovo Varischetti e continuarono a prestargli assistenza, in attesa che il livello dell'acqua iniziasse a calare sotto l'azione ininterrotta delle pompe. In superficie il sole si alzò e si abbassò. Risalì e discese. Arse e si sopì. Al nono giorno dal nubifragio e al terzo tentativo della mattinata, Hughes tornò ancora una volta al livello 10, rinunciando però all'attrezzatura subacquea. "Riportiamolo a casa!", urlò verso l'apertura della miniera. Lassù, solo respiri tesi. Entrò nel corridoio, ora illuminato da quasi 60 candele. Un passo avanti. Una mano protesa. Finalmente penetrava nella sacca-rifugio di Varischetti. L'italiano era allo strenuo delle forze, prossimo al delirio e con l'ossigeno al limite. Riuscì ad abbozzare un ghigno alla torcia che lo accecava. Solo il diavolo, ormai, poteva essere giunto a prenderlo. Impossibile per lui reggersi sulle braccia. Dovette essere trascinato a spalla per tutta la risalita, finché qualcuno poté disegnare sul calendario un cerchio rosso intorno al 28 marzo. Alle sei di sera, Varischetti respirava di nuovo l'aria del deserto sotto lo sguardo incredulo del dottor Robert Mitchell. "Ce la fa" - confermò ai dirigenti della miniera. "L'italiano non molla". Un urlo di gioia esplose fra la folla accalcata all'ingresso della miniera. Volarono cappelli e bottiglie di birra, braccia muscolose si strinsero le une con le altre. I nomi di "Charlie" e Frank Hughes arrivarono persino alle orecchie curiose dei canguri rossi. Cercando di sottrarsi al ricovero ospedaliero, Varischetti biascicò di voler lavorare appena in forze, così da poter spedire altri risparmi a Gorno. La comunità italiana si affrettò invece a coniare una medaglia d'oro per onorare l'eroico palombaro, proprio come fece il governatore del Western Australia con la prestigiosa Albert Medal, accompagnata da un certificato di merito. Vittorio Emanuele III, re d'Italia, decorò a sua volta il Ministro delle Miniere. Tricolori e bandiere con la Croce del Sud coloravano ogni angolo d'Australia. Qualcosa, poi, ruppe l'incanto.

Trascorsero alcuni anni, finì una guerra mondiale, e poco prima che la polvere dell'oro soffocasse il polmoni di Charlie Varischetti, il 3 settembre 1920, sugli italiani dei Goldfields piombò una tempesta ben peggiore di quella Bonnievale. L'accoltellamento di due reduci per mano di un taglialegna italiano, avvenuto nell'agosto 1919 per cause non del tutto chiarite, scatenò una rappresaglia contro la comunità di immigrati mai vista prima. In cerca di vendetta per la successiva morte di uno dei loro compagni, orde di britannici presero di mira gli hotel degli immigrati a Kalgoorlie e Boulder, le due città principali del Goldfields, spaccandone i vetri e lasciando intendere che i tempi, per gli italiani, erano cambiati. La conferma più drammatica sarebbe però giunta qualche anno dopo, in occasione del fine settimana dell'Australia Day.

Sul far del tramonto del 29 gennaio 1934, mentre i McKinley rientravano in auto verso lo York Hotel di Kalgoorlie, si accorsero che qualcosa non andava. La moglie, Evelyn, iniziò ad agitarsi. All'orizzonte scorse fiamme e fumo nella zona di Hannan Street. "Allora ero segretaria della Kalgoorlie Benevolent Society" - avrebbe ricordato più avanti - "e avevo a che fare con persone svantaggiate, vittime della Grande Depressione, in una posizione che mi consentiva di ascoltare molti problemi, ma anche tanti rancori. Il tema principale riguardava i dings, gli italiani "suonati", gli scimuniti, che riuscivano ad ottenere il lavoro nelle miniere, mentre gli australiani no. Si vociferava che i capi delle imprese prendessero soldi dalla loro comunità per impiegarli. Che fosse vero o falso, non venne mai provato, ma contro gli italiani crebbe presto un forte risentimento". Prima del rientro in città, quel giorno, i McKinley avevano inoltre orecchiato che un australiano era stato ucciso all'Home from Home hotel di Hannan Street, gestito dalla signora Rina Gianatti. Le voci in giro aizzavano anche a "sistemare" il suo hotel e "ripulire" i covi italiani. "Mio dio, Mac" - esclamò la donna avvicinandosi al centro del città - "hanno iniziato gli scontri".

Prima della loro unione nel 1989, Kalgoorlie e Boulder rappresentavano due città distinte, un avamposto di civiltà nel bel mezzo dell'outback e a ridosso del temuto Nullarbor Plain, il territorio australiano dove neppure le piante riescono ad attecchire. Già nel 1934 il lavoro in entrambi i centri si svolgeva 24 ore su 24, alternando i minatori in tre turni dalle 8 del mattino, dalle 4 del pomeriggio e da mezzanotte. Oltre all'oro, che faticosamente permise al Western Australia di resistere al crollo delle borse nel 1929, l'area offriva vastissime riserve di legname, grazie all'abbondanza di sandalo ed eucalipti. Per gli immigrati italiani, greci e jugoslavi, tuttavia, la vita non era affatto facile; a seguito della Grande Depressione, furono i primi ad essere esclusi dalla fornitura di buoni di sussistenza per pasti e per beni necessari. Alle misure discriminatorie del governo le comunità etniche risposero rafforzando i propri legami, soprattutto nelle città dove l'economia riusciva ancora a girare, tanto d'aver permesso ad alcuni immigrati di ritagliarsi un ruolo di tutto rispetto. A Kalgoorlie la ristorazione e l'accoglienza erano in mano agli italiani, con locali rinomati come l'Hollywood Toilet Saloon, gestito da Miss Dorizzi, o l'imperdibile Home from Home hotel di Rina Gianatti. Qui si poteva bere a qualsiasi ora del giorno o della notte, concedendosi anche qualche bicchiere di vino prodotto nelle vigne della Swan Valley, o addirittura con uve originali dell'Italia. Non appena i minatori terminavano i turni in miniera, il quartiere di Hannan Street si trasformava in un punto di ritrovo obbligato, anche perché ospitava quel che sarebbe poi diventato il bordello più antico, discusso e ambito di tutta l'Australia. "Questa Casa". Uno poteva lavorare per la Lake View and Star, per la Great Boulder Proprietary, per la Boulder Perseverance o la South Kalgurli, la Associated o la North Kalgurli: qualunque fosse la compagnia aurifea, poco cambiava. Buoni guadagni, a costo di altissimi rischi. Suicidi per depressione inclusi. Col consolidarsi dei grandi cartelli, di riflesso crebbero le divisioni di classe, finendo per confinare gli immigrati nella parte meridionale di Boulder, meglio nota come Dingbat Flat. La spianata dei suonati. Dei circa 1.500 stranieri presenti nei Goldfields, un decimo della popolazione degli anni '30, la maggior parte viveva lì. La proprietà delle miniere restava nelle mani degli inglesi, la loro gestione in quelle degli americani, i lavori di fatica erano per gli italiani, i greci, gli jugoslavi. Lontani i tempi in cui si poteva far fortuna scavando semplicemente la terra con le proprie mani, com'era accaduto a Paddy Hannan: il pioniere irlandese che, dopo aver perso ogni speranza di ricchezza, si chinò a cambiare lo zoccolo del suo cavallo, accorgendosi di camminare sopra uno dei filoni auriferi più ricchi al mondo. Il Golden Mile di Kalgoorlie.

Per George Edward "Ted" Jordan, la miniera più ambita era invece l'Home from Home hotel, dove servivano sempre birra fresca e vino di qualità. "He liked his grog", dicevano di lui. Sabato notte, 27 marzo, bussò alla porta di Rina Gianatti nella speranza di un ultimo goccio. Lei lo riconobbe nella penombra, non senza sorpresa. Ted aveva già abbondantemente bevuto al suo bar, poche ore prima. Dal retro dell'hotel chiese di essere servito una volta ancora, incassando però un garbato rifiuto. "L'hotel è chiuso". La donna era stimata da tutti. "Una vera britannica naturalizzata, per quanto soggetta alla razza italiana", l'aveva definita il giudice Herbert Evatt dell'High Court of Australia. Nata nella cittadina di Mazzo, in Valtellina, risiedeva in Australia già dagli anni '20. Un decennio dopo perse il marito, Martire Gianatti, e fu costretta a crescere da sola i tre figli, neppure adolescenti. Grazie alla licenza dell'Home from Home, gli affari le andavano relativamente bene e riceveva spesso cortesie dagli altri immigrati italiani, cui offriva il suo hotel come primo punto d'appoggio quando arrivavano nei Goldfields. Per i britannici, però, l'Home from Home dava ospitalità anche a disinibite signorine, in concorrenza col famoso bordello di Hay Street. Non appena la porta si richiuse, Rina udì un colpo tagliente. Qualcuno aveva rotto il vetro del suo ufficio. Si fiondò sull'uscio e trovò Ted lì in piedi, con aria annoiata. "Che succede?", le domandò facendo un passo sotto la lanterna. "Qualcuno ha rotto la mia finestra", replicò Rina col suo accento marcato. "Non hai visto nessuno qui fuori?". Il minatore scosse la testa, limitandosi a un secco "no". Scocciata, la donna chiamò allora il suo barman, il 34enne Claudio "Charlie" Mattaboni, dicendogli di avvertire la polizia. "É tempo che vada", rilanciò Ted, venendo però bloccato da Charlie. "No, tu aspetti qui".

I due si conoscevano abbastanza bene: l'italiano, valtellinese di Montagna e con qualche lavoretto alle spalle a Freemantle, era in servizio da quattro anni all'Home from Home, mentre il nome del minatore correva facilmente sulla bocca di tutti, merito del suo talento sportivo. Anche per quello, forse, venne trattato con accondiscendenza dal poliziotto arrivato rapidamente sul posto. Gli fu intimato di tornare a casa e chiudere lì la sua notte brava. Sul lato opposto di Hannan Street, d'altra parte, era ormai chiuso anche il Kalgoorlie Wine Salon di Nicholas Rizos, un imprenditore greco da poco arrivato in città. Ted avrebbe sistemato le cose in un'altra occasione. Come molti britannici di allora, provava una larvata gelosia per la condizione economica, sociale e anche sessuale degli stranieri. In particolare per quelli che vestivano scuro, con cappelli sempre calcati in testa e la fastidiosa abitudine di sostare sotto i portici, occhieggiando le donne in circolazione. Senza dimenticare la loro spudorata intraprendenza, che li spingeva ad accettare qualunque offerta, anche a costo di allungare qualche banconota nelle mani dei datori di lavoro. Eppure gli italiani, che rappresentavano il 20% della forza lavoro dei Goldfields, venivano considerati lavoratori seri, dignitosi, oltre che filo-unionisti, a favore cioé della federazione del Western Australia agli altri Stati del continente.

Alle 8.30 della sera successiva, 28 gennaio, Violet Harper vide tutto. A tre case di distanza dall'Home from Home, si accorse che uomo alto stava allontanandosi da uno più basso e robusto, intento a lanciargli addosso qualcosa. Non appena questi fece per tornare all'hotel, l'uomo alto lo inseguì finendo per essere investito da nuovi lanci di pietre raccolte per terra. "Non è da uomini", ribatté cercando di proteggersi. Sulla porta d'ingresso Rina Gianatti si spazientì. "Se sei tornato per cercare guai, non devi far altro che passare per questa porta e troverai pane per i tuoi denti". L'uomo alto si rivolse allora a un altro tizio davanti all'ingresso. "Charlie", urlò, "sii un uomo e battiti da uomo a uomo". "Torna domani", non si scompose l'altro, "quando almeno sarai sobrio". L'uomo alto piantò i piedi. "A che ora?". "Quando vuoi", rilanciò Charlie. "Io lavoro qui".

Più tardi Violet Harper venne a sapere che quell'uomo alto si chiamava Ted Jordan, ma scoprì anche altri dettagli che in quel momento non aveva neppur immaginato. Perché più che visto, forse aveva immaginato troppo. Alle 5.30 del pomeriggio, Ted era stato avvistato a bere al Gala Hotel, in compagnia del suo amico George Lindhan. Il loro modo per fronteggiare il caldo asfissiante di quella giornata di festa, durante la quale il termometro era schizzato oltre i 42 gradi. Un'ora e mezza più tardi la coppia era apparsa invece all'Homo from Home di Rina Gianatti. Consumarono ancora un paio di boccali, saldando subito il conto. A servirli fu "Charlie" Mattaboni, che chiese a Ted se fosse a conoscenza di chi aveva rotto il vetro del loro ufficio, la notte precedente. Il minatore rispose di non averne idea. "Sapresti sicuramente chi ha rotto la finestra" - commentò Charlie - "se solo volessi dire la verità". L'aria cominciava a scaldarsi anche lì e i due bevitori decisero di allontanarsi. A un passo dall'uscita, Ted si voltò. "Portaci ancora due pinte". Il barman eseguì in silenzio, piazzando le birre sul bancone, e fu allora che l'australiano tentò la scorciatoia dei minatori di Kalgoorlie. "Te le paghiamo la prossima volta". Era davvero troppo. Mattaboni rovesciò uno dei boccali in faccia a Ted e, non appena l'altro ebbe finito di asciugarsi con un sorriso di sfida stampato sulle labbra, venne colpito improvvisamente da un pugno. Finito a terra, Ted si portò le mani al naso sanguinante, bloccando il passo a Rina Gianatti. "Che cos'è successo?", chiese la donna di rientro dal cortile. Nessuno rispose, ma Lindham si affrettò a portare al bagno Ted per ripulirgli il naso. Pochi minuti dopo il minatore ricomparve al bancone, chiedendo a Charlie spiegazioni. "Ti avevo avvertito". L'australiano si ritrasse. "Ci vedremo presto". "Ne vuoi forse ancora?". Non controbatté più. Uscì dall'hotel, mentre Lindham tentò di gettare acqua sul fuoco. "Lascia perdere. Non portargli rancore". I due raggiunsero quindi lo Star and Garter hotel, circa cinquecento metri più a ovest, dove ripresero a bere birra. Erano più o meno le 7.30 di sera. Quando decisero di separarsi, Ted tornò a bazzicare davanti all'Home from Home. Fu in quel momento che venne visto da Violet Harper, così come da altri testimoni. Era circondato da una trentina di persone, quasi tutti italiani, pronti a lanciargli sassi addosso. L'hotel era ormai chiuso e sulla porta d'ingresso stavano di guardia Charlie Mattaboni e Rina Gianatti. Il minatore era in cerca di rogne. Si avvicinò ai due, dicendo di esser stato colpito solo per aver chiesto ancora un po' da bere. Quindi lanciò la sfida. "Tornerò domattina, così regoliamo i conti". Mattaboni non ci vedeva più. "No, la finiamo ora". Si avventò sul minatore e lo colpì tenendo in pugno qualcosa che sembrava un pezzo di legno. Ted si sbilanciò e fu a quel punto che venne investito da un altro cazzotto sotto il mento. Cadde a peso morto, picchiando la testa al suolo. Uno dei testimoni, il suo amico Dillon, corse per soccorrerlo, mettendogli un cappello sotto la testa. "Ted! Ted!". Nessuna risposta. Un italiano accorse subito con un bicchiere di brandy in mano, provando a rianimarlo, ma il minatore restava incosciente. Un altro spettatore, Fred Martin, si precipitò allora ad avvertire la polizia.

Nella ricostruzione degli agenti, qualcosa non tornava. I fatti non potevano essersi svolti così: la testimonianza di Rina Gianatti smentiva anche quella dei due australiani. Lei si trovava infatti al bancone dell'hotel, quando Ted e Lindham erano apparsi attorno alle 7 di sera. Lindham aveva ordinato due birre, lasciando uno scellino sul bancone. Secondo la donna, Ted chiese a lei se avessero scovato chi aveva rotto la loro finestra la notte precedente. "No", aveva risposto Rina, "ma l'uomo che ha rotto la mia finestra non è molto lontano da qui". Se n'era quindi andata dal bancone, lasciando il lavoro a Charlie. Nel dattiloscritto della polizia viene riportato che, dieci minuti più tardi, la donna si accorse che Ted e Lindham stavano battibeccando col suo barman sulla soglia dell'hotel. L'italiano pretendeva di essere pagato per le birre richieste. "Ok. Lasciami entrare e poi pago", aveva risposto il minatore. Cercando di varcare l'uscio era però stato bloccato da Charlie e colpito in faccia. Mattaboni aveva quindi raggiunto l'australiano alla porta d'uscita, dicendogli: "Se fossi un uomo, mi diresti chi ha rotto la finestra". Il minatore aveva dichiarato di sapere chi fosse stato, ma che mai avrebbe fatto la spia. "Bene. Se non vuoi dirmi chi lo ha fatto" - queste le parole di Charlie - "vuol dire che l'hai fatto tu". "Lo ammetto", aveva tagliato corto Ted. Solo a quel punto, sempre nella ricostruzione dei fatti, Rina risulta essersi avvicinata al minatore, dicendogli che il suo naso stava sanguinando e che avrebbe fatto meglio ad andare in bagno a tamponarlo. Da lì la situazione si complica. Il resoconto conferma che lo rivide poco più tardi, intento a stuzzicare Charlie al bancone. "Ted desistette solo nel momento in cui la donna gli intimò di andar via. Un'ora più tardi, mentre la titolare dell'Home from Home godeva di un po' di frescura sulla veranda dell'hotel, lo aveva poi visto tornare. Il minatore era accompagnato da altre due persone. Fred Martin e John Dillon". "I due" - chiarisce ancora lo scritto - "si sganciarono per andare verso l'uscita posteriore dell'Home from Home. Ted si fiondò invece verso l'ingresso principale, chiamando Charlie. La donna, allora, non ci vide più. Inseguì il minatore e cercò di cacciarlo dall'hotel, dicendo al suo barman di continuare a lavorare e di non immischiarsi. "Dai, Charlie, da uomo a uomo! Ce la smazziamo così". Ted non desisteva. Spintonò via la donna e irruppe quindi nel bar, atterrando l'italiano. Si mise in posizione di combattimento, con le braccia alzate, ma al primo colpo di Charlie rotolò fuori dal locale. Dalla parte opposta del cortile, Violet Harper urlò a quel punto di chiamare subito un dottore, perché Ted era caduto di testa".

Furono raccolte molte altre testimonianze, ma tutte finivano per confermare la versione di Rina Gianatti. Dopo la rissa, i fatti appaiono invece più lineari. Ted venne trasportato in ospedale, dove alle 9.30 di sera era in servizio il dottor Alosyus Daly Smith. Lo esaminò immediatamente, dal momento che era ancora privo di sensi ed emanava un forte odore di alcol. "Soffriva di una ferita trasversale alla base del naso - riporta il referto medico - mostrava inoltre un'abrasione dello zigomo destro e un ristagno di sangue nella palpebra inferiore destra. Aveva anche un rigonfiamento sul labbro superiore e sul dorso della mano sinistra. Il naso continuava a sanguinare". Alle 10.15 prese in carico il paziente anche il dottor Bernard St. Patrick Gillet, dicendo di essere il medico curante di Ted. Le condizioni continuavano però a peggiorare e, tornando a visitare il paziente verso le 3 di notte, il dottor Bernard si accorse che presentava segni di compressione intracraniale. Provò a estrarre sangue con una puntura lombare, ma vide che era presente anche fluido cerebrale. Quando venne concordata l'operazione d'urgenza era ormai troppo tardi. Alle 3.45 di lunedì 29 gennaio, Ted era morto.

Le indagini della polizia scattarono il giorno seguente e Charlie Mattaboni venne messo agli arresti per omicidio colposo. Nonostante la dettagliata ricostruzione fornita agli agenti, il capo d'accusa non fu ritirato e la rabbia cominciò a serpeggiare per tutta Kalgoorlie. Non aiutò a stemperare gli animi l'articolo uscito in giornata sul Daily News, a firma di Jack Costello. Il giovane corrispondente era il tipico cronista d'assalto: presente ovunque, sempre a caccia di scoop, mosso dal desiderio di bruciare la concorrenza del ben più quotato Kalgoorlie Miner. In quella circostanza, però, fu tra i primi a confidare al detective Tom Triat di temere le conseguenze di un articolo in cui venivano ricostruiti i fatti, senza aver chiuso il caso. A 16 anni era già stato testimone di una situazione analoga, quando un gruppo di ex militari britannici aveva scacciato da un caffé il 23enne Giacomo Gotti, taglialegna italiano disoccupato, orgoglioso e sospetto comunista. Si riferiva alla famigerata rivolta del 1919. All'umiliazione pubblica il ragazzo aveva infatti replicato afferrando un coltello e colpendo a morte Thomas Northwood. Tremenda fu la reazione dei britannici e a farne le spese furono molte delle loro attività commerciali. Ben peggiore appariva però la situazione del 1934.

Nell'articolo mandato in stampa, Jack cercò di bilanciare le ragioni della comunità italiana e la comprensione per la dura vita dei minatori, di uno dei quali era lui stesso figlio. Aveva perso il padre per fibrosi polmonare, conosciuta nell'ambiente come windowmaker, e uno dei motivi per cui Jack aveva scelto di dedicarsi al giornalismo riguardava proprio la possibilità di sensibilizzare le autorità del settore estrattivo, favorendo un miglioramento delle condizioni di sicurezza sul posto di lavoro. Aveva ottenuto anche qualche importante risultato. Nel 1934 erano ormai in servizio macchine umidificatrici grazie alle quali impedire alle polveri minerarie d'intaccare i polmoni di chi scavava. Ventilatori meccanici venivano inoltre montati nei principali tunnel minerari, rendendo l'aria più salubre rispetto ai tempi in cui Modesto Varischetti aveva iniziato a lavorare in Australia. Nessun articolo, tuttavia, sarebbe stato in grado di placare gli animi di Kalgoorlie, in quei giorni. Per troppo tempo i britannici avevano covato insofferenza verso gli stranieri e, negli anni in cui la Grande Depressione mieteva lavoratori ovunque, ogni pretesto sarebbe stato buono per ristabilire i ranghi.

Cominciò tutto con l'urlo di un ragazzo. Alle 6 di sera Rina Gianatti aveva chiamato allarmata la stazione di polizia di Kalgoorlie, riferendo di voci sempre più insistenti circa il desiderio di radere al suolo il suo hotel. Tentarono di calmarla; due agenti sarebbero presto arrivati sul posto. Pochi minuti dopo le biciclette della polizia erano già in pattugliamento attorno all'Home from Home, ma non venne rilevato alcunché di sospetto. Rina era in compagnia di due uomini, intenta a godere della frescura serale. Eppure, come avrebbe poi scritto Jack Costello, "ognuno sembrava in attesa che qualcosa accadesse". Gli agenti decisero di proseguire in direzione di un imbottigliatore indiano, Juma Khan, che lamentava problemi di vicinato con alcuni nativi. Fu un terribile errore. Appena all'incrocio fra Hannan e Lane Street, a un centinaio di metri dall'hotel, stavano infatti ammassandosi cittadini britannici dall'aspetto minaccioso. Costello si era intrufolato fra loro, nascondendo il block notes nella tasca dei pantaloni. Quando un altro poliziotto s'imbatté per caso nel loro raduno, alle 8.15 di sera, erano ormai un assembramento di almeno duemila persone. Non fece in tempo a lanciarsi verso l'Home from Home. In quell'esatto istante, un adolescente raccolse da terra una pietra e la scagliò contro l'edificio dirimpetto all'hotel italiano, il Kalgoorlie Wine Saloon. "Andiamo ragazzi - aizzò la folla - diamoci dentro". Il segnale presentito da Costello. La folla esplose, muovendosi compatta, e una tempesta di pietre s'abbatté sul tetto dell'edificio. Fu il via a una follia incontrollabile.

Uno degli avventori del locale, l'italiano John Moratti, riuscì a mettersi in salvo a stento, ma capì che per i suoi connazionali era l'inizio della fine. La furia devastatrice puntò dritta all'edificio di Rina Gianatti, dando avvio a un tiro all'uomo senza pietà. Finestre, porte, assi di legno finivano frantumati sotto centinaia di colpi a distanza sempre più ravvicinata, finché per i riottosi fu possibile irrompere nell'edificio. Le sedie vennero spaccate contro i muri. Le tubature divelte. Le bottiglie scagliate a terra con cieca violenza. I piatti del ristorante, così come il registratore di cassa e i mobili delle stanze, scaraventati fuori dalle finestre. Nulla venne risparmiato. Per affrettare la distruzione, qualcuno pensò di appiccare il fuoco senza neppure avvertire gli altri, tanto che alcuni di loro si ritrovarono bloccati al secondo piano, rischiando di non poter più scampare alle fiamme. Il fumo e le urla riportarono sul posto gli agenti in pattugliamento, ma la situazione era ormai fuori controllo. Uno di loro, Constable Sunter, venne addirittura ferito dalla folla, benché avesse tentato di trarre in salvo una donna britannica residente accanto al Wine Saloon. Alle 8.50 fu richiesto l'intervento di una brigata. Kalgoorlie non poteva però contare che su 25 agenti in tutto. Era chiaro che la folla non si sarebbe accontentata del solo Home from Home e del salone dello sfortunato Nicholas Rizos, che aveva aperto la sua attività da meno di un mese. Prima di mettersi in marcia lungo Hannan Street e prendere di mira ogni singolo locale in mano agli stranieri, sia che fosse di proprietà italiana, greca o jugoslava, i teppisti incendiarono anche la Ford di Rina Gianatti, rischiando di farla esplodere nel bel mezzo della folla. Tanto era l'odio che covava nel sangue, che presero a sassate gli stessi pompieri accorsi per estinguere le fiamme. "Let it burn!", gridavano in coro, con gli occhi ebbri di distruzione. Ai poliziotti che cercavano di placare gli animi, vomitarono addosso l'astio ingoiato per anni. "Non riusciamo ad avere un lavoro, perché non dovremmo spazzarli via e bruciarli?". La fiumana, poi, si riversò contro la All Nations Board & Lodging House, l'edificio simbolo della rivolta del 1919. Negli ultimi sei anni l'hotel era stato rilevato da Jim e Maria Giudice, offrendo camere agli italiani che non trovavano posto nell'affollato Home from Home di Rina Gianatti, subito a fronte. Venne fatto saltare in aria, usando polvere da sparo sottratta probabilmente alle miniere. Opponendosi con coraggio alla folla, l'agente Sunter si rese conto che molti dei britannici erano sotto l'effetto dell'alcol. Ad altri colleghi, invece, mancò sufficiente coraggio per intervenire. "Se solo ci fosse stata una mezza dozzina con la stessa volontà di Sunter - osservò poi il cronista Costello - e una camionetta per disperdere i sobillatori, non avremmo assistito ad alcuna rivolta".

Non ci fu nulla da fare. Lungo Hannan e Lane Street era in corso la sistematica devastazione delle attività commerciali straniere. Furono sventrati anche il Café Carlton, proprietà del 68enne greco Stavros Psaros, ma cittadino britannico modello da oltre 40 anni, quindi lo Strand, il Sydney Bridge, il Majestic, il Rex e persino il Moama Café di Eva Saligari, che da settimane stava cercando di riprendersi economicamente con alcune offerte di cucina tradizionale italiana. Arrivati ai confini della città, dopo essersi lasciati alle spalle fiamme e rottami, i riottosi fecero ciò che tutti si erano augurati non facessero. Avanzarono in massa verso la città gemella di Boulder, la Dingbat Flat, il covo degli stranieri suonati. "A Boulder! A Boulder!" - urlavano - "Spazziamoli via tutti". "Forza ragazzi, al Main Reef!". L'hotel di Giuseppe Maffina, parente di Rina Gianatti, fu solo la prima vittima di Boulder.

Svaporata l'isteria collettiva di quell'interminabile notte, l'elenco dei danni lasciò il sergente Ernest Moloney senza parole. Solo a Boulder erano state rase al suolo 46 case e 29 campi, oltre ad altre 14 proprietà gravemente danneggiate. Due hotel e un club per stranieri erano finiti in fiamme, mentre una decina di attività commerciali azzerate. Moloney stimò danni per la sua città di almeno 70mila sterline.

Mentre la burocrazia lavorava per dare un tetto ai cittadini colpiti dalla rivolta, aiutandoli a rifarsi una vita in città, faticosamente i tribunali tentarono di riscattare la giustizia australiana. Malgrado molti avvocati evitassero di prendere le difese degli italiani o degli altri stranieri, non di rado contrari per ragioni razzistiche, un neolaureato di nome Eric Heen riuscì da solo a salvare la coscienza di Kalgoorlie. Aveva 34 anni, proprio come il suo assistito Charlie Mattaboni. Smontando con sagacia e cocciutaggine ogni falsa prova addotta contro l'italiano, mettendo in fila ogni indizio che aveva condotto alla rappresaglia della notte del 28 gennaio 1934, spendendosi in accorati appelli alla ragione e al buon senso, raggiunse un risultato clamoroso. Il 13 marzo Claudio Mattaboni fu giudicato dalla corte non colpevole, contribuendo così a sbloccare il rimborso economico di tutti i cittadini ancora in attesa degli aiuti statali. I primi beneficiari furono Rina Gianatti, cui andarono 650 sterline, e il greco Nicholas Rizos, compensato con altre 500. Anche Jim e Maria Giudice ottennero 350 sterline. Solo in quella prima tranche ne furono distribuite oltre 15mila, nella speranza di scongiurare una fuga di massa dai Goldfields e il tracollo dell'economia locale. Charlie, al pari di Rina Gianatti, preferì infatti lasciare Kalgoorlie per sempre, trasferendosi a Perth. Là si sposò, ebbe una famiglia e divenne anche un apprezzato impresario nel settore trasporti. Subito dopo il processo, alcune teste calde tentarono di infangare di nuovo il suo nome a Kalgoorlie, sobillando i residenti a distruggere i bordelli di Hay Street, "perché tutti in mano all'italiano". Altra spregevole falsità, cui per fortuna nessuno volle prestare ascolto. Rina, dal canto suo, riuscì a risollevarsi nella grande città costiera, ma dopo essere passata attraverso un lunghissimo esaurimento nervoso.

Terminata la notte di follia e presa gradualmente coscienza di cosa fosse accaduto in quel maledetto lunedì 28 gennaio, la città avvertì il bisogno viscerale di rapportarsi agli stranieri con un rinnovato spirito di solidarietà, tipico in realtà della gente dell'outback. Benché i fatti accaduti pesassero sulla coscienza di molti come un macigno, nessuno pretese di dimenticare. Da tutto il Western Australia, inoltre, cominciarono a giungere a Kalgoorlie e Boulder visitatori increduli, curiosi, pellegrini pentiti, ognuno in cerca delle prove fumanti di cui i giornali avevano a lungo scritto. Chi aveva scattato foto subito dopo la rivolta mise invece a disposizione i propri scatti, permettendo di montare un cortometraggio di due minuti e mezzo, intitolato "Kalgoorlie Riot Pictures at the Ambassador". Grazie alle immagini che scorrevano sullo schermo dell'Ambassador Theatre di Perth, accompagnate da una drammatica musica orchestrale, gli spettatori potevano rendersi conto di come la notte della ragione non fosse calata solo sull'Europa nazi-fascista, ma anche nella fiera e libera Australia. Sulle vie di due sue grandi città. Nelle case di semplici cittadini.

L'odio tracimato nella rivolta apparve quanto di più avulso dall'animo pionieristico del Paese. Una terra capace di offrire opportunità di rinascita a chiunque avesse avuto il coraggio di spingersi sino alle sue coste. Lontana anni luce dalle lotte e dai pregiudizi di chi l'aveva colonizzata con la forza, così come da chi cercava di trascinarla in guerre di cui non era responsabile. Un'immagine certo idealizzata, di cui i nativi avevano molteplici ragioni su cui obiettare, e che presto sarebbe stata macchiata dallo scontro con le potenze dell'Asse.

Eppure i "riots" del 1934 sono stati un vero punto di svolta. Nella storia dell'Australia hanno contribuito ad avviare un ripensamento complessivo della coscienza nazionale, inducendo gli abitanti di quella terra remota a trovare un simbolo, o un volto, che potesse essere testimone dei loro valori di fraternità, laboriosità e cocciutaggine. Quel volto, nel Western Australia, ha infine assunto i tratti di Modesto Varischetti: eroe celebrato anche nel piccolo Ecomuseo delle Miniere di Gorno, nonché protagonista di un toccante docu-film realizzato dal produttore bergamasco Daniele Gastoldi, in collaborazione con Valeria Messina, dal titolo "My name is Charlie". Un'anticipazione, si auspica, di un progetto cinematografico ancor più ampio, che includa la drammatica e misconosciuta rivolta di Kalgoorlie-Boulder.

"Nel 1987, in occasione degli 80 anni dall'incidente di Bonnievale - ha dichiarato Scott Wilson, presidente dell'Eastern Goldfields Historical Society - abbiamo commemorato Modesto Varischetti piantando una lapide speciale. Un blocco di granito che fosse facilmente riconoscibile nel cimitero di Coolgardie. Ogni visitatore può ora fermarsi davanti alla sua tomba e meditare sulla vita esemplare di quest'umile immigrato. 

Un uomo diviso fra due mondi lontani, ma in fondo semplice cittadino del mondo. Un minatore amato da tutti, perché capace di dimostrare che la speranza non muore mai, neppure quando tutto volge al peggio e ogni via d'uscita sembra preclusa. Un lavoratore instancabile, che ha sacrificato la sua salute per aiutare gli altri, ma il cui decesso per fibrosi polmonare ha indotto anche le società minerarie ad anteporre la dignità dell'uomo al profitto. Un piccolo grande italo-australiano, che nel suo abbraccio riconoscente ci tiene ancora uniti da un capo all'altro del mondo. Perché nessuna legge, nessun confine, nessuna malattia potrà mai farci dimenticare che siamo, e sempre resteremo, fratelli sotto lo stesso cielo".         

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